26 anni fa ci lasciavano, per colpa di un vile atto mafioso, il giudice Paolo Borsellino e gli angeli della sua scorta. Il 19 luglio, da quel terribile 1992, non è più stato una semplice data sul calendario, è diventato molto di più. È divenuto la data simbolo (insieme al 23 maggio, giorno della strage di Capaci) della lotta contro la mafia, contro l'ingiustizia, del ricordo di un uomo che, insieme a Giovanni Falcone, ha dato la sua vita per un ideale: quello di un Paese pulito, giusto e libero. Una data che acquisisce un significato ancora più forte nell'anno in cui i giudici della Corte d'Assise di Caltanissetta hanno confermato che dietro la strage di via D'Amelio è stato messo in atto "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana".

Strage sulla quale ci sono ancora tante, troppe domande senza risposta.

Il bisogno della verità

Chi, in questi 26 anni, non ha mai smesso di lavorare per arrivare alla verità è la famiglia del giudice: la sorella Rita, il fratello Salvatore, la moglie Agnese (scomparsa nel 2013), i figli Lucia, Manfredi, Fiammetta. Quest’ultima, in una lettera indirizzata a “La Repubblica”, ha messo nero su bianco 13 domande riguardanti la morte del padre, le indagini, i depistaggi. Fiammetta e i suoi fratelli si chiedono, tra le altre cose, perché le autorità non misero in atto tutte le misure necessarie alla sicurezza del padre, soprattutto dopo la morte di Falcone; perché per un avvenimento di tale portata fu scelta una procura i cui magistrati non avevano competenze nel campo della mafia; perché via D’Amelio non fu sorvegliata, impedendo così che l’agenda rossa sparisse; perché dopo la strage di Capaci, nonostante Borsellino avesse riferito ai PM di Caltanissetta di avere cose importanti da dire non venne convocato.

Fiammetta Borsellino fa domande su Scarantino: per esempio, per quale motivo i PM non indagarono a fondo sulle sue continue ritrattazioni e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta, visto che è ormai chiaro il tentativo di far convergere le loro dichiarazioni verso un’unica versione?

Domande che, 26 anni dopo, meritano risposta.

Per Paolo Borsellino e per i ragazzi della scorta. Per le famiglie Borsellino, Cosina, Loi, Catalano, Traina, Li Muli. Per Antonio Vullo, unico sopravissuto, che non dimenticherà mai certe immagini. Per quell’Italia che ancora crede nei valori e nel lavoro del magistrato palermitano.

Paolo Borsellino e la strage di via D’Amelio

Nato a Palermo nel 1940, Paolo Borsellino si laureò in giurisprudenza nel 1962 con 110 e lode. L'anno successivo, a soli 23 anni, entrò in magistratura, divenendo, all'epoca, il più giovane magistrato d'Italia. Dopo diversi incarichi iniziò a lavorare sotto la guida di Rocco Chinnici, con cui instaurò, come affermato da Rita Borsellino, sorella del giudice, e da Caterina, figlia di Chinnici, un rapporto quasi di adozione, non soltanto professionale. Chinnici istituì il pool antimafia (scioltosi poi alla fine degli anni '80), di cui facevano parte anche Borsellino e Giovanni Falcone e, quando lo stesso Chinnici fu ucciso da un attentato mafioso, nel 1983, al suo posto subentrò Antonino Caponetto.

Il lavoro del pool permise la raccolta di una serie di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno che portarono all’emissione di centinaia di ordini di cattura e decine di arresti. Nell’estate 1985, per ragioni di sicurezza, Borsellino, Falcone e le loro famiglie furono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio di 476 indagati. Il maxi processo, svoltosi in un’aula-bunker appositamente costruita all’interno del carcere Ucciardone di Palermo, iniziò il 10 ottobre 1986 e terminò il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli. Borsellino fu poi nominato, su sua richiesta, procuratore di Marsala.

Il giudice tornò a Palermo nel 1992 come procuratore aggiunto e, il 19 maggio 1992, nel corso dell’undicesimo scrutinio dell’elezione del Presidente della Repubblica, l’allora segretario del MSI Gianfranco Fini, indicò ai suoi parlamentari di votare Borsellino come Presidente della Repubblica. Il giudice ottenne 47 voti. Nel frattempo, già dal settembre 1991, Cosa Nostra aveva iniziato a pianificare l’uccisione del magistrato.

Dopo che il collega e amico fraterno Giovanni Falcone perse la vita (con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro) nella strage di Capaci, Borsellino iniziò a rilasciare interviste e a partecipare a numerosi convegni per denunciare l’isolamento dei giudici e un mondo politico che, secondo lui, non poteva e non voleva fornire risposte certe e convincenti circa la lotta alla criminalità.

Ormai consapevole di essere il prossimo bersaglio di Cosa Nostra, cominciò a lavorare senza sosta e, in una delle sue ultime interviste, rilasciata a Lamberto Sposini il 24 giugno 1992, citò Ninni Cassarà, ucciso nel 1985, dicendo “convinciamoci di essere dei morti che camminano”. Meno di un mese dopo, il 19 luglio, fu ucciso da un attentato di stampo mafioso sotto casa della madre, in via D’Amelio 21. Alle 16.58 una Fiat 126 rubata, carica di circa 90 chilogrammi di esplosivo, saltò in aria uccidendo il giudice palermitano e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La richiesta inoltrata, alle autorità di Palermo, nelle settimane precedenti quella domenica di luglio, di vietare il parcheggio di veicoli in via D’Amelio era rimasta senza seguito.

I misteri, i depistaggi, le domande

Il primo mistero collegato alla strage di via D’Amelio riguarda la sparizione dell’agenda rossa da cui il giudice non si separava mai e che non è mai stata ritrovata nonostante, come affermato dai figli Lucia e Manfredi, Borsellino l’avesse messa nella borsa il giorno della sua morte. Lo stesso Manfredi ai giudici della Corte D’Assise ha affermato che “se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un’altra direzione”. La valigetta, infatti, tornò nella mani della famiglia. Ma non l’agenda rossa. Nel 2017 per la strage sono stati finalmente condannati all’ergastolo Salvo Madonia e Vittorio Tutino. Nel corso degli anni tuttavia ci sono stati una marea di pentiti poi rivelatisi falsi, confessioni, ritrattazioni, condanne ribaltate.

Fino al 30 giugno 2018, giorno in cui la Corte d’Assise di Caltanissetta ha parlato dell’attentato a Borsellino come di “uno dei più gravi depistaggi della storia italiana” con protagonisti uomini delle istituzioni, che percepivano come un pericolo l’attività del magistrato palermitano.

In particolare, secondo i giudici, l’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera ebbe un ruolo centrale “nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia” e fu anche coinvolto nella sparizione della nota agenda rossa. È stato per esempio riconosciuto che Scarantino (il più discusso tra i falsi pentiti, che ritrattò numerose volte nel corso di venti anni di processi) fu costretto a fornire una falsa versione della fase operativa dell’attentato e gli è stata quindi concessa l’attenuante spettante a chi viene indotto da altri a commettere il reato. La procura ha quindi chiesto il rinvio a giudizio per il reato di calunnia in concorso per il funzionario Mario Bo e i poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.