Nelle scorse ore è stata approvata all'unanimità la relazione conclusiva dell'inchiesta della commissione parlamentare sul disastro marino del Moby Prince, avvenuto al largo del porto di Livorno il 10 aprile 1991 e costato la vita a 140 vittime a seguito di una collisione con la petroliera "Agip Abruzzo".
Tra i vari aspetti affrontati durante la commissione - presieduta dal deputato del Pd Andrea Romano - è emerso come in quella sera del 10 aprile 1991 il meteo non presentasse particolari condizioni avverse né pare che l'imbarcazione manifestasse particolari segni d'avaria al motore o alle eliche.
E' stato invece accertato come la petroliera Agip, proprietà dell'Eni, si trovasse in una zona in cui invece era stato fatto espresso divieto di transito. Inoltre dalla relazione della commissione emerge il coinvolgimento di un terzo natante, le cui ipotesi più probabili d'identificazione propendono - secondo la relazione parlamentare - per un ex peschereccio somalo ormeggiato nel porto di Livorno per delle riparazioni, il 21 Oktobaar II, o di bettoline impegnate in operazioni di bunkeraggio clandestino. Il tutto sarebbe coerente anche con l'improvvisa virata che il traghetto avrebbe effettuato causando l'incidente.
I momenti della tragedia più grave della marina mercantile italiana
La sera del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince diretto dal porto di Livorno a Olbia, con a bordo 75 passeggeri e 65 membri del personale di bordo agli ordini del comandante Ugo Chessa, all'uscita dal porto colpì con la prua la cisterna 7 della petroliera Agip Abruzzo, contenente 2700 tonnellate di petrolio Iranian Light.
Del petrolio fuoriuscito, parte si riversò in mare mentre il resto investì la prua e s'incendiò a causa delle scintille prodotte dallo sfregamento tra le due imbarcazioni .
Alle ore 22:25 venne lanciato l'allarme dal marconista di bordo attraverso il VHF portatile poichè egli stesso al momento non si trovava nella postazione radio.
I passeggeri vennero sistemati in attesa dietro le porte tagliafuoco nel salone Deluxe, ma persero ugualmente la vita a causa delle esalazioni di monossido di carbonio. Un unico sopravvissuto, l'allora ventitreenne Alessandro Bertrand, mozzo della nave, riuscì a salvarsi gettandosi in mare e venendo tratto successivamente in salvo dai soccorsi sopraggiunti.
Nel corso dei vari gradi del processo i Tribunali di Livorno e Firenze sottolinearono - tra le varie concause - l'imprudenza del comandante Ugo Chessa, deceduto anch'egli nel disastro, sebbene non sia considerata decisiva nell'impatto. Vi fu inoltre un lungo dibattito circa il funzionamento degli impianti di sicurezza antincendio adottati a bordo e riguardo le condizioni metereologiche di quella sera, per la presenza di possibili banchi di nebbia che avrebbero ostacolato la visibilità tra le imbarcazioni. Ulteriori aspetti trattati interessarono il ritardo dei soccorsi, concentratisi dapprima sulla petroliera e sulla legittimità di transito di una delle due imbarcazioni nel tratto dell'incidente.