Debutto alla regia per lo sceneggiatore iraniano Hossein Amini, assurto alla gloria dopo un lungo apprendistato grazie alla sapiente scrittura di Drive, film cult del 2011 con Ryan Gosling. Dirige I due volti di gennaio, in questi giorni nelle sale italiane: film tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith, opera che ha appena festeggiato i cinquant'anni e che Bompiani ha recentemente rieditato. Siamo ad Atene, nel 1962: Chester, uomo d'affari americano, si trova in vacanza con la moglie Colette. Lui è raffinato, impeccabile nei suoi completi diafani di lino, cappello e sigaro in bocca, appare molto sicuro di sé, lei, bellissima e altera, ha un temperamento inquieto e impulsivo. Li nota Rydal, un connazionale che da qualche tempo si è trasferito in Grecia dove lavora come guida turistica, per fuggire dai fantasmi di un rapporto contraddittorio e irrisolto con il padre appena scomparso. Presto si scoprirà che Chester è un truffatore perseguitato da agenti segreti per conto dei suoi creditori che un incidente trasforma in assassino ricercato dalla polizia greca.

Coinvolto nella vicenda un po' per caso e un po' per un'ambigua attrazione che la coppia esercita su di lui, Rydal si offre di scortare i due coniugi fino a Creta, le cui rovine gravide di trame simboliche e rimandi antropologici divengono teatro della crescente tensione sessuale tra Rydal e Colette e del deflagrare delle pulsioni più oscure dell'animo umano. Thriller psicologico, dunque, che mescola il motivo classico del triangolo amoroso con suggestioni psicanalitiche (la proiezione della figura paterna su Chester da parte di Rydal), l'ordito misterioso e anarchico della mente umana.

I due volti di gennaio si presenta come un'opera il cui maggior pregio dal punto di vista formale è l'uso drammaturgico delle splendide location (Atene, Creta, Istanbul), a cui il regista conferisce una patina quasi estetizzante e di cui valorizza al massimo le opportunità evocative, realizzando un prodotto indubbiamente raffinato e godibile. Ottimi anche gli attori: Kirsten Dunst, incarnazione di una femminilità insieme algida e tormentata, Viggo Mortensen, perfetto nel ruolo di un uomo apparentemente vincente, ma intimamente fragile e sconfitto, e il guatemalteco Oscar Isaac, già apprezzato in A proposito di Davis, film dei fratelli Coen, che conferma il suo talento corposo e duttile. Peccato, però, che qualcosa non funzioni e che il film non riesca a coinvolgere del tutto: le gratificazioni estetiche restano solo promesse di un'emozione che non affiora mai.