Per Napoli e non solo oggi è un altro giorno triste: si è spento questa mattina il regista Francesco Rosi, come ha riportato, per primo, Il mattino. Nato nel 1922, aveva compiuto 92 anni lo scorso 15 novembre. Figlio della buona borghesia partenopea, Rosi s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, ma il foro non sarebbe stato il suo destino. Nel 1946 è a Milano dove tenta la carriera di illustratore e, negli anni successivi, a Roma dove incontra un giovane Luchino Visconti, che segue come assistente sul set de La terra trema. Grande uomo di Cinema, di cui conosceva ogni aspetto, si formò prima come sceneggiatore (con Suso Cecchi D'Amico scrisse Bellissima) e poi come aiuto-regista (Il senso): il debutto come regista avvenne nel 1958 con La sfida, che ottenne grande successo e vinse a Venezia il premio speciale della giuria.

Il film si presenta come un affresco tagliente, asciugato da ogni sentimentalismo e da ogni scorciatoia retorica, della Napoli più popolare, l'ambiente naturale in cui s'innestano l'ambizione e l'arrivismo di un boss che intende a tutti i costi accelerare il percorso di ascensione ai vertici della camorra: il ruvido bianco e nero è l'effigie estetica di un regista che predilige il documentarismo scabro alla letterarietà, per incidere le ferite della storia nazionale recente, soprattutto quella, più patita, del Mezzogiorno. Così è anche in Salvatore Giuliano (1962), opera che inaugura il cinema d'inchiesta e lo fa con inappuntabile rigore, seguendo le vicende del bandito Giuliano tra cronaca, reportage giornalistico e parti recitate: il successo internazionale del film proietta la ricerca cinematografica di Rosi in una prospettiva sovranazionale e il suo lavoro viene accostato a quello di Orson Welles (Quarto potere).

Il cineasta torna alla sua Napoli nel 1963 con Le mani sulla città, in cui riprende la ricerca del Neorealismo nel segno della critica civile e dell'analisi sociale, denunciando gli abusi edilizi in una realtà urbana che Rosi guarda con distacco, congelando ogni impulso passionale in nome di un'estrema tensione formale, di un gusto estetico austero e raffinatissimo, funzionale alla rappresentazione serrata del malcostume e dei suoi riverberi emotivi: Rosi si muove con la macchina a spalla tra i passanti che assistono al crollo di un edificio fatiscente e ne cattura ogni vibrazione, ogni moto di sgomento, allestendo lo spoglio campionario di sentimenti autentici. 

Il suo gusto per la sottrazione e la sintesi formale si conferma anche in un altro film d'inchiesta, Il caso Mattei (1972), sulla vicenda dell'industriale morto in circostanze misteriose, che vince la palma d'oro a Cannes e radicalizza, affinandoli, gli strumenti d'indagine sul reale: i personaggi di Rosi sono sì invischiati nella cronaca, identificati con essa, ma allo stesso tempo anche sublimati, elevati a paradigmi universali, a figure archetipiche. 

E della sua vasta filmografia, non si possono non ricordare le opere che hanno attinto alla letteratura o al melodramma: Cristo s'è fermato ad Eboli (1979); Tre fratelli (1981), scritto con Tonino Guerra e ispirato a un racconto di Platonov, requiem per la civiltà contadina che sconfina nella storia più recente, quella degli anni di piombo; Carmen (1984), dall'omonima opera lirica; La tregua (1997), l'ultimissima fatica di un grande cineasta che ha condotto con superba coerenza la sua ricerca della verità, rinnovando in modo originale e significativo i linguaggi e le forme del cinema.