Miglior film ai David di Donatello2016 emiglior sceneggiatura al Tribeca Film Festival.Perfetti Sconosciuti, l’ultimo film di Paolo Genovese, conquista così la critica non solo italiana ma anche estera e se il cast d’eccezione (con nomi come quello di Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Giovanni Battiston) conferisce profondità e spessore al film, sicuramente a colpire più di tutto è il tema fin troppo attuale del nostro rapporto con la tecnologia ma soprattutto dell’incomunicabilità sempre più insanabile, proprio fra quelle persone che più di tutte dovrebbero esserci vicine.

La trama

Lele e Carlotta e Cosimo e Bianca sono due coppie legate da un’amicizia di vecchia data con Rocco ed Eva e hanno deciso di riunirsi a casa di questi ultimi per osservare l’eclisse di Luna insieme a Peppe, ultimo amico del quartetto maschile nonché unico "spaiato" del gruppo. Seduti attorno a un tavolo, fra un giro di fiori di zucca ripieni e una fetta di polpettone, per spezzare la noia della serata decidono di fare un gioco: tutti poseranno i loro cellulari sul tavolo e fino alla fine della serata i messaggi ricevuti da ognuno verranno letti ad alta voce e le telefonate ascoltate in vivavoce, per dimostrare che in fondo nessuno degli astanti ha nulla da nascondere.

Nonostante Rocco sia contrario a quel gioco e nonostante le iniziali reticenze, tutti decidono di portare avanti la sfida fino alle estreme conseguenze.

Se all’inizio a venir fuori saranno solo i piccoli peccati veniali di ognuno di loro e fraintendimenti che nella realtà non nascondono affatto tradimenti, col passare dei minuti la situazione si farà sempre più incandescente, finché – a causa di un apparentemente innocuo scambio di cellulari – la verità si farà strada attraverso la persona sbagliata, innescando, come le tessere di un domino, una devastante reazione a catena di scoperte, litigi e confessioni troppo a lungo rimandate.

Una sera fra amici che si trasforma in una seduta d’analisi

L’impianto di Perfetti Sconosciuti è teatrale, che ricorda – nella location e in alcuni dei temi affrontati – un film come Il nome del figlio, adattamento italiano del francese Cena fra amici. Anche qui un grande salone da pranzo funge da ritrovo e punto di scontro di tante vite diverse; anche qui ci sono dei segreti che proprio gli amici più intimi o i compagni di una vita hanno tenuto a lungo nascosti; anche qui quello che poteva sembrare un gioco degenera in uno scontro che mette a nudo tanti piccoli ma consistenti punti di frattura.

Ma la differenza sta tutta nel tono, che si fa via via più drammatico, e nell’analisi di un aspetto delle nostre vite odierne che è stato spesso oggetto di strali scontati o di esaltazioni affrettate. Paolo Genovese non fa nulla di tutto questo: sotto processo non è la tecnologia, il cellulare in sé, ma il modo in cui le persone finiscono per farne – per dirla con le parole di Rocco – la scatola nera delle loro vite fin troppo frangibili.

E se il finale lascia spiazzati e di primo acchito ancora più amareggiati, è perché, finito il gioco delle ipotesi e delle “sliding doors”, quello che resta sono le vite troppo vuote di persone troppo occupate ad avvolgersi nei loro segreti e nella paura che, a guardarsi finalmente negli occhi con sincerità, si scopra dall’altra parte nient’altro che un perfetto sconosciuto.