Riprodurre la leggendaria Factory del quinto piano del 231 East 47th Street di New York e riproporre un “Warhol dopo Warhol”. È questo l’intento degli organizzatori della mostra “Andy Warhol. L’opera moltiplicata: Warhol e dopo Warhol” in corso al Gamec di bergamo fino al 30 luglio 2017.

Quattro sale coperta di stagnola, proprio come la “Silver Factory” che l’autore commissionò a Billy Name nel 1962 ed in cui Warhol espresse la sua creatività e la sua critica satirica nei confronti di un mondo consumista e superficiale. Fu nella Silver Factory che la corrente della Pop Art, nata in Gran Bretagna negli anni Cinquanta, conobbe il suo definitivo riconoscimento internazionale.

La mostra del GAMEC cala il visitatore nell’atmosfera surreale e psichedelica dei primi anni Sessanta (la Factory originale chiuderà nel 1968) quando nello studio di Warhol passavano i principali protagonisti che avrebbero cambiato la società artistica, ma non solo, degli anni Settanta. Nella Factory si incontravano Bob Dylan e Salvador Dalì, Allen Ginsberg e Mike Jagger, David Bowie e Mary Woronov.

La ripetitività come arte

Le sale della GAMEC espongono alcuni dei lavori più emblematici e famosi di Warhol catalogandoli non per aree tematiche o cronologiche, bensì prendendo spunto dall’idea stessa della Pop Art: la ripetitività dell’oggetto nella società dei consumi. L’idea da cui prende spunto la mostra nasce da una frase di Andy Warhol stesso: «Ogni cosa ripete se stessa.

È stupefacente che tutti siano convinti che ogni cosa sia nuova, quando in realtà altro non è se non una ripetizione». Così il celebre video Empire del 1964, ripreso con la sua Bolex (un filmato della durata di 8 ore e 5 minuti in cui l’Empire State Building è ripreso in un’inquadratura fissa dal Time-Life Building) viene considerato l’esempio cinematografico dell’opera moltiplicata.

La serie di lattine di zuppa pronta Campbell è uno dei primi studi della Pop Art. Warhol stesso spiegò che «Volevo dipingere il nulla e ho cercato qualcosa che fosse l’essenza del nulla e (in quelle lattine) lo trovai».

Subito dopo il nulla della Campbell arrivarono alcune dei lavori più iconici di Warhol: i ritratti di Marilyn Monroe (alcuni dei quali sono esposti nella mostra della GAMEC) e quelli delle bottiglie di Coca Cola (purtroppo assenti).

La transitorietà del tempo e il tema della morte

Il tema della morte è uno dei leit motiv che accompagneranno l’arte di Warhol per tutta la sua vita: «Semplicemente, ai miei occhi la Monroe è una persona come tante. (…) E’ un ideale di bellezza, lei è bella e se qualcos’altro è bello sono i colori carini, tutto qui. O forse c’è dell’altro. Il quadro della Monroe era parte di una serie che stavo realizzando, ispirata a persone che erano morte in vari modi. Non vi era nessuna ragione profonda in assoluto per fare la serie della morte, non erano vittime del loro tempo; non vi era nessuna ragione in assoluto per farla, solo una ragione superficiale

Legato allo stesso contenuto è la serie dei fiori (1964), ripreso, così come altre opere di Warhol, da una foto, in questo caso di Patricia Caulfield e alterata nei colori pastello.

L’effimera esistenza dei fiori d’ibisco, delicati e incantevoli, è evidenziata dallo sfondo scuro. La transitorietà del mondo e, di nuovo, il consumismo di una società che invogliava a cambiare continuamente oggetti erano così rappresentati da questi fiori, coloratissimi, ma alla fine, se vogliamo penetrarne la reale essenza, destinati a passare velocemente nel tempo, lasciando lo spettatore solo con il proprio nulla.

La Rivoluzione Culturale e i ritratti di Mao

La Guerra del Vietnam, il movimento del Sessantotto, le proteste studentesche nei campus universitari statunitensi indussero Andy Warhol, su consiglio del suo mecenate svizzero Bruno Bischofberger, a tornare a dipingere ritratti di personaggi noti, riprendendo la fortunata serie di Marilyn Monroe.

Questa volta, però, ci fu una vera e propria svolta: i personaggi ripresi da Warhol non furono scelti dal mondo dello spettacolo, ma dalla politica. Nel 1972 la rivista Life aveva dedicato a Mao Zedong un articolo in cui lo si dipingeva come la persona più famosa del mondo era, quindi, naturale che l’artista ne fosse attratto. Warhol non disse mai se fosse politicamente attirato dall’idea rivoluzionaria maoista, ma la serie di Mao fu una delle più fortunate e, al tempo stesso, controverse della sua produzione artistica. La foto da cui prese il soggetto era quella ufficiale del 1966 che compariva nel Libretto Rosso. Poco prima di dipingere il leader cinese, Warhol si espresse così sulla Cina: «Ho letto tanto sulla Cina.

Sono così eccentrici! Non credono alla creatività. L'unica immagine che hanno è quella di Mao Zedong. È bellissima. Sembra una serigrafia». Le sue parole, ingenue e superficiali, denotano una visione ristretta e naif della politica. L’unico motivo, quindi, che lo portò a dipingere Mao fu il contrasto che sentì tra l’austerità e la severità di una società comunista, con quella frivola e edulcorata della società occidentale consumistica. È l’incontro tra queste due realtà che portò Andy Warhol a creare una delle immagini icone dell’arte pop, oggi esposta anche alla mostra del GAMEC. Simbolicamente, la mostra termina con l’ultima opera di Warhol: quella del Lenin Nero che si contrappone a quella del Lenin Rosso (non presente).

Dipinta nel 1987, due anni prima della caduta del Muro di Berlino e pochi mesi prima della morte di Warhol, l’immagine di Lenin si discosta sensibilmente dalle altre serie: se nei precedenti dipinti era il colore e il contrasto a colpire l’occhio, qui è la linea a prendere il sopravvento. Sembra quasi che Warhol presagisse la sua morte. L’enfasi è data tutta al volto che nel Lenin Nero esposto alla GAMEC risalta molto più che nel suo gemello Rosso.

Chi era Andy Warhol?

Warhol era figlio di un minatore cecoslovacco (il suo vero nome era Andy Warhola). Nato a Pittsburgh, Pennsylvania, il 6 agosto 1928, studiò al Canergie Institute of Technology prendendo il diploma in Disegno Pittorico nel 1949.

Subito dopo il suo trasferimento a New York, Andy “americanizzò” il suo cognome in Warhol. L’amore per la metropoli statunitense sarà destinato a durare per tutta la vita. New York tributò all’artista la gloria: dopo alcune mostre in gallerie cittadine, il Museo di Arti Moderne organizzò una esposizione dei suoi lavori nel 1956. Da allora il mito di Warhol fu sempre in ascesa. Nel 1968 una femminista, Valerie Solanas, autrice del Manifesto SCUM, sparò all’artista provocando un cambiamento radicale nella vita di Warhol che lo portò ad un sempre maggiore isolamento. L’ultima sua apparizione in pubblico fu, simbolicamente, la rivisitazione de L’ultima cena che inaugurò lui stesso a Milano. Durante l’evento ebbe un malore. Venne ricoverato al New York Hospital, dove morì il 22 febbraio 1987.