L'Iran è l'ultimo Paese in cui le persone minorenni, al momento del reato, possono ancora essere condannate a morte. Il 30 gennaio, Ali Kazemi e Mahbubeh Mofidi, un ragazzo e una ragazza, sono stati impiccati: quando hanno commesso il reato, avevano rispettivamente 15 e 17 anni.

Tre esperti delle Nazioni Unite, Asma Jahangir, Agnes Callamard e Benyam Dawit Mezmur (presidente della Commissione per i diritti del Fanciullo) hanno denunciato la situazione, chiedendo a Teheran di annullare le condanne a morte per i minorenni. Il numero dei giustiziati, invece di diminuire, come promesso dalle autorità iraniane, ha continuato a crescere.

Si tratta di dati riportati dalla lega internazionale per l'abolizione della pena di morte nel mondo, "Nessuno tocchi Caino'', ONG riconosciuta alla cooperazione e allo sviluppo.

Ritorno sulla pena di morte

La pena di morte è una sanzione penale che prevede che il condannato venga privato della vita. Negli Stati in cui è ancora in vigore, lo è per reati gravi - omicidio, tradimento, altro tradimento - ma anche per alcuni minori, come nel caso dell'Arabia Saudita, dove anche lo spaccio di droga può essere punito con la pena capitale. In Cina, il numero delle condanne è ancora un segreto di Stato. Per questo motivo, le sole stime di Amnesty International pongono la Cina al primo posto nella classifica per numero di condanne.

Segue, in seconda posizione, l'Iran.

La pena di morte è antica. È stata presente in quasi tutti gli ordinamenti, democratici o meno, compresa l'antica Grecia. Generalmente, oggi la si reputa una pena barbara, caratteristica di società arretrate e non civilizzate. Ma attuare questa discriminazione tra civiltà, basandosi sulla pena di morte, potrebbe non essere così automatico.

Il matematico e filosofo britannico Whitehead, vissuto tra il XIX e XX secolo, pronunciò la famosa frase: "Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone". Eppure il filosofo greco scrive, nelle "Leggi", che "la pena deve avere lo scopo di rendere migliore, e se si dimostra che il delinquente è incurabile, la morte sarà per lui il minore dei mali".

La divisione tra barbari e civilizzati può, quindi, non essere così diretta.

In altre parole, la pena di morte non può essere né solo giusta, né solo sbagliata. La domanda che potremmo porre a Platone, è giustamente quella di chi dovrebbe stabilire se il criminale è incurabile o meno, quando e soprattutto secondo quali criteri. Ci sono alcuni esempi che ci fanno riflettere, come quello della strage norvegese di Utøya nel 2011: l'attentatore, colpevole della morte di 77 persone, è stato condannato a 21 anni di carcere, pena massima prevista in Norvegia. Una condanna giusta, ingiusta, e nei confronti di chi? Nessuno può stabilire quali siano i criteri che determinano la possibilità di una condanna a morte e viceversa: altrimenti, il dibattito sarebbe già stato risolto.

Per chi è contrario, la questione si presenta quasi facile: questa pena viola il diritto alla vita previsto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.

I filosofi illuministi

Ad una tale asserzione sono parecchi i filosofi che risponderebbero negativamente. Non è stato l'Illuminismo a portare la luce in una società che sosteneva la pena capitale: al contrario, la maggior parte dei filosofi illuministi, a partire da Rousseau, Kant, Diderot e l'utilitarista Bentham, erano favorevoli alla sua applicazione.

Kant, padre dell'imperativo categorico, sulla pena di morte si esprime così: "Se egli ha ucciso, egli deve morire. Non vi è nessun surrogato, nessuna commutazione di pena che possa soddisfare la giustizia.

Non c’è (...) nessun altro compenso tra il delitto e la punizione, fuorché nella morte giuridicamente inflitta al criminale". In altre parole, l'unica cosa che può soddisfare la giustizia è che la pena rispecchi il crimine. La vita umana non può essere valutata, e soprattutto per Kant non deve mai essere utilizzata come un mezzo, ma solo come uno scopo.

Anche J-J. Rousseau sostiene che la messa a morte del condannato sia l'unica soluzione: difatti, uccidendo, il criminale è uscito dal contratto sociale, che prevede la non-violenza di coloro che l'hanno sottoscritto gli uni verso gli altri.

Cesare Beccaria

Storicamente e filosoficamente, Cesare Beccaria fu uno dei primi a pronunciarsi apertamente contro la pena di morte nel 1764.

I suoi argomenti in "Dei delitti e delle pene'' sono chiari, relativamente semplici e non sono toccati dalla parte che si potrebbe descrivere sentimentale, cioè quella riguardante le sensazioni dei condannati in attesa dell'esecuzione, cosa che gli permette di risultare molto convincente. Utilitarista e contrattualista, Beccaria ritiene la pena di morte ingiusta e inutile.

Ingiusta perché il contratto sociale fa sì che gli uomini rinuncino ad una parte della loro libertà in favore del potere del sovrano; ma non tutta, e sicuramente non in una quantità tale da permettere a qualcun altro di decidere della sua vita o della sua morte. "Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo?

".

Inutile perché lontana dall'avere un effetto deterrente: al contrario - dice l'autore - alcuni sfidano quasi la morte per onore o per disperazione. Una vita di prigionia e di lavoro sociale, oltre ad essere più utile alla società, procurerebbe molto più terrore al condannato rispetto al pensiero di una morte relativamente rapida. L'esecuzione capitale sarebbe anche controproducente, perché avrebbe un effetto negativo sulla morale dei cittadini di uno Stato. La continuità delle esecuzioni causerebbe un'assuefazione alla violenza, e un'inclinazione a commetterla. Infine si tratta di una pena impopolare. Con quale coraggio si mettono a morte dei minorenni, come nel caso dell'Iran? La pena suscita compassione nei confronti nel condannato, e fa percepire lo Stato come nemico.

Conclusioni

Tuttavia, nonostante si ponga completamente contrario alla pena capitale, perfino Beccaria ammette due casi in cui si potrebbe e dovrebbe fare un'eccezione: nel caso in cui sia in gioco la sicurezza dello Stato, quindi se l'individuo in questione può destare una rivoluzione; e qualora la morte sia l'unico modo possibile per fermare i crimini. Non è lontana, come visione, da quella di Platone. L'autore lo fa con cautela: anche perché il problema che si ripresenta, ancora, è quello dei criteri, e di chi deve prendere la decisione.

J.R.R Tolkien scrive, nel primo capitolo della Compagnia dell'Anello: "Merita la morte - Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita.

Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze".

La discussione è ancora accesa, ma nel dubbio sarebbe bene limitare i giudizi di morte tanto alla leggera. Per riprendere un interrogativo posto da Beccaria, con quale diritto nel confronti di un cittadino, una nazione giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere?