Un monolite. Scuro, opaco, impenetrabile, misterioso. Eppure affascinante, magnetico, imprescindibile. A cinquant'anni quasi esatti dalla prima uscita nelle sale, nei Cinema italiani il 4 e 5 giugno prossimi gli appassionati di fantascienza in particolare e di cinema in generale potranno rivedere “2001: Odissea nello spazio”.
Un nuovo paradigma per la fantascienza
Un film che calamita a confonde, “2001”. Che pone più domande di quante non ne soddisfi. Che sovverte i canoni della fantascienza dell'epoca e ne stabilisce di nuovi. Un paradigma inedito col quale tutti poi hanno dovuto fare i conti, salvo poi stabilirne di nuovi, com'è naturale, per esempio Ridley Scott col suo “Blade Runner” (1982), che poi in realtà non è che un noir anni Quaranta, solo spostato nel futuro.
Cinema e filosofia
Un film che ha il coraggio di porre domande “pesanti”. Chi siamo noi? Cosa ci distingue dalle scimmie antropomorfe, forse la capacità di uccidere? L'intelligenza artificiale ci aiuterà o ci farà del male (Hal 9000)? Il viaggio “verso Saturno e oltre” ha poi un senso o il senso è il viaggio?
Quel monolite alieno che a un certo punto compare nel deserto e che sconcerta e spaventa le scimmie, ma che forse ne accende anche l'intelligenza (il vertiginoso, fantastico “stacco” dall'osso che vola alla navetta spaziale), è la rappresentazione perfetta del film che lo contiene: un enigma che affascina appunto perché enigma. Perché non tutto va spiegato.
Lodi e stroncature
Ma proprio per questo, probabilmente, non a tutti piacque, quando uscì.
Famosa la stroncatura di Pauline Kael, che a Stanley Kubrick rimproverò, tra l'altro, di prendersi troppo sul serio: “Se ai grandi registi – scrisse – si deve far credito per far male quel che altri hanno fatto brillantemente per anni e senza soldi, solo perché poi lo fanno vedere su un grande schermo, allora gli uomini d'affari sono più grandi dei poeti e il furto è diventato un'arte”.
Per Roger Ebert, invece, “2001” rientra senz'altro nella categoria dei “grandi film”: “Soltanto di pochi film si può dire che siano trascendenti – scrive – e che lavorano sulle nostre menti e sulla nostra immaginazione come la musica, la preghiera o un imponente panorama. La maggior parte parlano di personaggi che hanno un obiettivo in testa e che lo raggiungono dopo varie vicissitudini o comiche o drammatiche.
'2001: Odissea nello spazio' non parla della meta da raggiungere, ma della sua ricerca, del bisogno di una meta. Non fa affidamento sulla trama e non ci chiede di identificarci con Dave Bowman o con qualche altro personaggio. Quel che ci dice è: diventiamo uomini quando impariamo a pensare”.
Non esattamente entusiasta, all'epoca, neppure Renata Adler, che sul New York Times scrisse: “Il film è così totalmente assorbito dai suoi problemi, dal suo uso del colore e dello spazio, dalla sua fanatica devozione ai dettagli fantascientifici da porsi a metà strada tra l'ipnotico e l'immensamente noioso”.
Ma forse avevano capito tutto quegli spettatori che nel Sessantotto videro il film sotto l'influsso di sostanze varie, perché probabilmente “2001” è un film più da sentire che da capire.
Buona visione a tutti.