Nelle società preindustriali, l’atto del viaggio – la sua preparazione, la meta, e tutto ciò che potesse facilitarlo – era un evento straordinario. Poi, man mano che strumenti come l’automobile o le ferrovie, sono riuscite ad alleviare le eventuali peripezie che l’andare in giro per la Terra comporta, il progetto è diventato più accessibile. Tuttavia, forse oggi più di ieri, è meno accessibile la conoscenza di cosa causi l’inquietudine che porta a volersi allontanare dal quotidiano; diretti verso un ‘dove’ non ben individuato. Lo scrittore Paolo Cognetti si è posto alcune domande, in riguardo al tema, e ha cercato di dare delle risposte, affidandole alle pagine del suo nuovo romanzo.
Il titolo della sua nuova fatica letteraria è “Senza mai arrivare in cima” (Einaudi, pag. 120); sottotitolo, “Viaggio in Himalaya”; la cui data di pubblicazione è il 6 novembre 2018.
Descrizione dell’avventura
Il nuovo libro del romanziere milanese è, per alcuni versi, una sorta di taccuino di viaggio. Quindi, il lettore vi troverà anche descrizioni puntuali che segnalano quanto impegnativo sia organizzare la grande e sognata avventura, che ha portato il narratore in un luogo geograficamente così lontano dalla civiltà urbana. Si parla di compagni di viaggio; di muli resistenti che devono assicurare tutto ciò che possa risultare utile ai viaggiatori; di fatica fisica spesa per erigere le tende di sera, e smontarle al mattino, quando il sole annuncia che è ora di rimettersi in marcia; si tratteggiano i caratteri delle guide che sono diventate pratiche della loro professione, respirando per intere stagioni le bizze dei venti che soffiano negli angusti passi montani di una terra in parte ancora selvatica.
I compagni di viaggio
Cognetti ha compiuto un percorso particolarmente importante, anche da un punto di vista della visione lineare: si è accampato presso passi montani alti cinquemila metri, percorrendo trecento chilometri. Lo scenario del suo libro è quella terra che giace nell’Asia meridionale e confina con la mitica meta che settecento anni fa appassionò – altro indubbio cultore del viaggio – il veneziano Marco Polo, la Cina: il Nepal.
Lo scrittore ha designato come meta finale l’Himalaya. Questa montagna che si potrebbe con un artificio designare come la nona del suo cammino artistico – il romanzo precedente titolava “Le otto montagne” – è situata in un angolo remoto del Nepal. Ma l’autore non è solo in questa sua avventura: è accompagnato da un gruppo di amici, un cane tibetano che ha trovato per strada, e un libro per il quale nutre una peculiare predilezione.
Paolo si lascia alle spalle le Alpi per raggiungere una montagna che da bambino sognava di scalare: ma non ne vedrà mai la vetta. Infatti, superata la temperie dei suoi quarant’anni anagrafici, il romanziere si limita a scrutare piuttosto le valli che sorreggono i piedi di quelle forze rocciose naturali e l’alterità di quegli individui che vivono a contatto con esse. A volte, per vedere meglio, non serve salire in alto ma dirigere lo sguardo verso il punto giusto.