Banu, il film diretto ed interpretato dalla regista ventottenne Tahmina Rafaella, in una produzione che coinvolge Azerbaigian, Italia, Francia, Iran, è stato presentato l'1 settembre alla 79^ Mostra del Cinema di Venezia, nell'ambito dei progetti di Biennale College dedicato alla formazione dei giovani nei settori artistici. La storia descrive il caos dei giorni finali della seconda guerra del Nagorno-Karabakh durante i quali una giovane donna combatte una battaglia personale per la custodia del figlio contro l'influente marito da cui sta divorziando.
Ha a disposizione solo tre giorni per trovare dei testimoni che depongano a suo favore in tribunale e dichiarino che è una buona madre. Banu è il nome della protagonista, simile, in fondo, a Baku, quello della capitale dell'Azerbaigian, città che fra gli echi dei notiziari che riportano gli esiti dei combattimenti e le manifestazioni, viene attraversata ed osservata in un itinerario delle speranze molto intimo, coraggiosamente aggrappato alla determinazione di svincolare il ruolo delle donne dall'obbedienza a stereotipi sociali repressivi.
Fissità e movimento della regia
La regia di Tahmina Rafaella ruota intorno a due moduli opposti, la fissità dei primi piani ed il frequentissimo movimento delle riprese.
La scena si apre con il primo piano di Banu, largo e prolungato, in cui la giovane madre tenta di parlare ma viene interrotta mentre cerca di spiegare ad un poliziotto che suo marito ha rapito il loro figlio. "Un padre può vedere il figlio quando vuole, il termine rapimento non si applica, qui non abbiamo tempo per risolvere problemi familiari, c'è una guerra in corso, faccia pace con suo marito".
Questa è la risposta dell'agente il cui volto non si vede mai e si può avvertire quasi come una voce fuori campo. Come dire che predomina un sistema acefalo ma che detta legge. La reazione della donna è il sommovimento interiore di ribellione che la induce ad un moto continuo.
Banu s'incammina fisicamente, guida l'auto, anche se non potrebbe perchè è intestata al marito e rischia la contestazione di pesanti infrazioni.
Il suo scopo è trovare qualcuno che la aiuti a non perdere il figlio e in questa odissea incontra personaggi che incarnano modelli femminili più conformistici. Il film prevede un riscatto finale forse un pò troppo celebrativo ed enfatico, ma ha il merito di trovare una correlazione fra grande e piccola storia, fra eventi socio-politici e vicende individuali, in una quotidianità esaminata con semplicità e con l'intento di obiettivare ragioni e torti.
Buoni e cattivi
"I buoni e i cattivi sono dappertutto", dice la mamma al bambino che dichiara di odiare gli armeni, e aggiunge: "In classe ci sarà pure qualcuno che ti starà antipatico...". Questo per dimostrare che gli odi preconfezionati sono storture tanto quanto lo sono le costruzioni dell'immagine di un nemico.
Banu ribadisce che il patriottismo è amore per il proprio popolo e che può parlare in entrambe le lingue: il russo e l'azero, diffuse nelle zone scenario della guerra. "Anche io preferisco utilizzarle tutte e due", replica il bambino con un'affermazione che racchiude, probabilmente, il senso più profondo del film: rappresentare un viaggio interiore oltre le barriere linguistiche, i luoghi comuni, i pregiudizi.