Che cosa succede se una moglie cinquantenne che crede di dover vedere ancora con il proprio marito le stelle dell'equatore o il sole di mezzanotte viene improvvisamente abbandonata? Ce lo racconta Monica Dugo, attrice protagonista e regista esordiente del film Come le Tartarughe, presentato il 2 settembre al Lido di Venezia per la 79^ Mostra del Cinema nella sezione Biennale College. Dugo che dedica il suo lavoro "ai figli Laura e Lorenzo e alla potenza del loro amore", come è specificato al termine dei titoli di coda della pellicola, nel film tratteggia in modo singolare il personaggio di Lisa, la moglie tradita, che con una scelta stravagante ed imprevedibile si rinchiude ostinatamente nell'armadio.

Quando comprende che il consorte se ne è andato svuotando in fretta l'armadio delle sue cose, Lisa legge i versi dell'Epirrhema di Goethe: "Il Vivente non è mai a se stante, ma è sempre un insieme" e si rifugia in quello che avrebbe dovuto essere lo spazio condiviso e simbolico dell'unione familiare.

Un dramma borghese e l'invettiva contro gli psicologi

Lisa appartiene ai quartieri alti, vive in una bella casa del centro di Roma, ha una domestica e suo marito è un chirurgo che si occupa di autopsie. Sveva, l'irrequieta ed irruente figlia adolescente, ha un fidanzato, Luca, e coltiva la passione per il tennis che la accomuna al padre (nel film appare nel ruolo dell'allenatore l'ex tennista Corrado Barazzutti).

C'è poi il tenerissimo Paolo, fratellino minore, e sarà lui a chiedere alla madre: "Ti senti come le tartarughe? La maestra ha detto che le tartarughe d'inverno vanno in letargo perché hanno freddo".

Il film esprime un respiro calmo e regolare e, probabilmente, la lacerazione del dolore risulta poco esplorata, sussurrata solo in superficie, ma è la protagonista stessa che si spiega: "Sto qui perché se esco faccio un casino".

Lei non intende nemmeno mettersi in analisi e sciorina una precisa e calda invettiva contro gli psicologi arringando: "Giustificate i comportamenti più beceri e vigliacchi per sollevare i vostri pazienti dal senso di colpa in nome della ricerca della felicità personale e autorizzate l'egoismo e il narcisismo dei ricchi borghesi che si nascondono dietro la depressione".

Eppure è la psicologa del film, dottoressa Sturzo, che rassicura la protagonista: "Sarebbe strano - le dice - se fosse chiusa in un cassetto, non in un armadio".

Un universo da ricomporre

Nell'ironia dei contenuti del film, c'è una scelta stilistica che Monica Dugo sembra prediligere: il colore blu delle luci tutte le volte che Lisa si trova da sola chiusa nell'armadio o che uno dei vari personaggi le va accanto per parlarle, come accade con la madre-nonna, deliziosamente asfissiante, interpretata da Sandra Collodel, attrice che fu allieva di Gigi Proietti.

Il blu potrebbe esaltare le note introspettive della narrazione ma, in particolare, è piuttosto intenso nella scena-carillon in cui il movimento di macchina della ripresa è circolare mentre si passano in rassegna gli abiti dei momenti più importanti: il battesimo e la comunione dei ragazzi, il matrimonio della sorella, la cena con il Rettore, il Natale della gravidanza.

Nello sprofondare nei frantumi di un equilibrio scomparso, Lisa ritrova, nel finale, la volontà di uscire nuovamente allo scoperto. La figlia Sveva placa la rabbia e l'integrità dell'unione parentale è richiamata durante il film dalle frequenti inquadrature di una Madonna con il Bambino sulle scale di casa. La nonna si dichiara, invece, buddista e del tutto staccata dalle categorie del giudizio che nel matrimonio considerano la separazione una sconfitta. Lo stare nell'armadio potrebbe figurare la proiezione simbolica di una sorta di "Samadhi", di un sereno dimorare in se stessi, prima del rilancio dei nuovi passi nella realtà. Goethe, nella lettura di Lisa, continuava, infatti: "Rallegratevi della reale apparenza e della seria commedia".