Davide Bersan è un autore di saggi sui registi cinematografici Yasujirō Ozu e Ingmar Bergman. Veronese di nascita, ma milanese d’adozione, interviene spesso come relatore a iniziative culturali promosse dalle biblioteche comunali di Milano “Crescenzago” e “Lambrate”. Bersan è anche in possesso di una licenza in teologia spirituale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.

In questa intervista rilasciata in esclusiva a Blasting News, Bersan parla delle proprie opere e dei suoi progetti futuri.

L’intervista

Quali sono i motivi che l’hanno spinta a realizzare queste opere?

“L'obiettivo di fondo è quello di riscoprire Ozu e i primi successi di Bergman. Infatti Ozu e Bergman ci portano a fare riflessioni serie e profonde sulla vita e sulla morte aiutandoci a sviluppare una spiritualità. Affrontano temi e inviano messaggi ritenuti attualmente non di moda o problematici, ma che a mio modo di vedere andrebbero invece riscoperti e approfonditi”.

Parliamo del saggio del 2020 “Figure del padre in Ozu”. Come le è venuta l’ispirazione per scriverlo? Di cosa tratta e come è strutturato il libro?

“E’ un’elaborazione che parte dal mio vissuto. Può considerarsi il frutto di alcuni anni di ricerche e di discussioni anche pubbliche (penso ai per me stimolanti e arricchenti incontri realizzati nelle biblioteche) sui film di Ozu.

Il regista giapponese, molto sensibile a tutto ciò che si muoveva nella società del suo tempo, avvertiva come la secolarizzazione stesse mettendo in crisi tutti i valori della tradizione e che di questo processo in atto fosse la famiglia la prima a soffrirne. Il libro ripercorre queste trasformazioni attraverso le opere dell’autore nelle quali, oltre a farsi largo il concetto di “Mono no aware” (ossia l’idea di vivere il cambiamento, il fluire e il morire delle cose con serena rassegnazione confidando in una rinascita, in un rinnovamento), la figura del padre riveste un ruolo di primo piano”.

Ci può parlare della sua seconda opera, nella quale il tema del Trascendente, presente in sottofondo nella cinematografia di Ozu, prende invece decisamente il centro della scena nella produzione di Ingmar Bergman che va dalla metà degli anni ‘50 agli inizi del ‘60 del secolo scorso?

“Nel mio secondo saggio del settembre del 2021 intitolato “Dio ridotto al silenzio – Pensieri inattuali su Bergman” ripercorro proprio questo periodo, nel corso del quale il regista svedese, figlio di un pastore protestante, concentra gran parte dei suoi sforzi su questa tematica.

Questa stagione bergmaniana, improntata sulla riflessione teologica, mi è sembrata più trascurata o comunque meno analizzata rispetto a quelle posteriori. Le domande sul senso della vita, sulla morte e sulla fede non mancano anche oggi, però vengono soffocate da un clima culturale che tende a svalutarle”.

Che cosa può dirci in merito agli stili adottati da questi due registi?

“Le differenze sotto questo punto di vista sono evidenti. Ozu sembra abbracciare uno stile impressionista stimolando delicatamente sentimenti ed emozioni, quasi nascondendosi dietro la macchina da presa. Quest’ultima, tenuta bassa, pare accogliere lo spettatore nella scena rendendolo partecipe di conversazioni semplici che ruotano sempre attorno a un punto centrale per l’autore.

Bergman, palesandosi con forza, s’identifica genialmente con quello espressionista. Il grande maestro svedese entra in maniera diretta nelle situazioni coinvolgendoci in modo profondo e autentico nel suo vissuto”.

Progetti per il futuro?

“Non ho ancora ben chiaro cosa ne verrà fuori, ma sto vedendo le opere di Eric Rohmer, un autore che per certi versi assomiglia molto a Ozu. Mi riferisco non solo alla semplicità dello stile, ma anche delle storie analizzabili sotto diversi livelli”.