Punto primo: finora, né i partiti politici (compreso il M5S), tanto meno la tecnocrazia europea, hanno mai dato risposte. Fino all'anno scorso per saperne di più sul nostro "moloch", il Fiscal Compact, si ricorreva a un solo testo, "Cosa salverà l'Europa. Critiche e proposte per un'economia diversa" (curato da B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang, H. Sterdyniak), palesando cosa, in realtà, rappresenti per i paesi aderenti, questo spauracchio che agita l'Eurozona.
Ma andiamo a ritroso: il trattato internazionale, ratificato nel 2011 da tutti gli stati membri (esclusi Repubblica Ceca e Regno Unito), obbliga a un debito pubblico strutturale (commisurato all'evoluzione del trend economico), che non superi lo 0,5% del Pil.
Per tutti quei paesi il cui deficit pubblico sia inferiore al 60% del Pil, la soglia d'ammissibilità nel rapporto tra i due soggetti sarà destinata a livellarsi sull'1%, avendo uno scoperto sulle entrate non superiore allo 0,5% del Pil. Attenzione a un dato apparentemente marginale e cioè che la direttiva comprende anche le quote sugli interessi applicati al debito.
Punto secondo: in pratica, nel giro di vent'anni varrà l'obbligo a rientrare in questo limite al ritmo folle di un ventesimo d'eccedente per ogni benedetto anno. Si evidenzia, quindi, come il debito pubblico italiano, che, nel secondo semestre 2013, ha raggiunto e sforato quota 133,3%, si dovrà "restringere" al 60%, registrando avanzi primari fino al 2033.
Punto terzo: poniamo un modello quanto meno rivelatore. Il termine "strutturale" contiene macchinosi processi statistici, che vanno a "ritoccare" il calcolo secondo il ciclo economico. Vista l'attuale recessione, le entrate (tasse), si abbassano (ma non la pressione fiscale, che fornisce, in ogni caso, un minore gettito di denaro), mentre aumentano le uscite, per esempio legate agli ammortizzatori sociali e al welfare state.
Eventuali "correzioni" applicate al Fiscal Compact ne terranno conto? E quale sarà il dato "strutturale" conciliabile?
Punto quarto: fermo restando che sono due le tesi del tutto antitetiche - per gli economisti che si oppongono al Fiscal Compact - questo si tradurrà in vent'anni d'austerità, con scontri sociali, povertà, il tributo a una recessione permanente; mentre, per i tecnocrati della Bce con testa la cancelliera Merkel e lo staff della troika (Fmi e Commissione inclusi), la conformità alle condizioni del trattato permetterebbe la rioccupazione e la fiducia dei mercati, agevolando la posizione dei titoli debitori, contenendo i tassi d'interesse.
Punto quinto: negli ultimi giorni si parla di "attenuanti interpretative" al trattato, che, ricordiamolo, sarà applicato dal 2015. Secondo l'economista Angelo Baglioni, (università Cattolica di Milano), il vincolo è molto più flessibile di quanto supposto finora e questa tolleranza sarebbe già contemplata all'origine. Superando il debito del 60% del Pil, la riduzione riguardante l'eccedente di un ventesimo (i famigerati cinquanta miliardi che l'Italia dovrebbe "risparmiare", ogni anno), non sarebbe un valore assoluto ma esclusivamente il rapporto che intercorre tra debito e Pil. In altre parole, se cresce il Pil, il debito può restare comunque oltre i 2100 miliardi…Insomma, in vista di una ripresa economica, ci sarebbero margini per ridurre il debito senza caricare oltremodo i tagli alla spesa. Il punto è riprendere in mano le redini dell'economia reale, ma questo è già un altro discorso.