Il 7 luglio a Niamey, la capitale del Niger, si è tenuto un vertice straordinario dei capi di governo africani per definire le modalità di attuazione dell’Afcfta (Area di libero scambio continentale africana). L’accordo, definito nel 2018, è stato sottoscritto da 54 Stati africani su 55. Cioè tutti, ad eccezione dell’Eritrea.

L’Afcfta dà quindi il via libera al più grande mercato comune del mondo, con un Pil di oltre 2500 miliardi di dollari e 1,2 miliardi di consumatori. Esso prevede la riduzione di almeno il 90% dei dazi sui prodotti importati da altri paesi africani.

Ciò significa che il commercio intra-africano, sinora limitato al 17% delle transazioni totali dei vari Stati, potrà avviarsi a raggiungere i livelli dell’Asia (59%) e, soprattutto, dell’Europa (69%), dove il libero scambio vige da decenni.

Le distorsioni dell’economia postcoloniale che l’Afcfta può finalmente risolvere

Esaminiamo maggiormente nel concreto i vantaggi di questa rivoluzione. Sinora, anziché rivolgersi alla produzione locale, il commercio africano si è basato sulla rivendita di prodotti importati. Anche se, a ben guardare, la materia prima con cui la maggior parte di tali prodotti è fabbricato proviene dall’Africa. Questo perché, sino a ieri, il groviglio di tariffe doganali rendevano gli scambi intra-africani estremamente costosi e vittime di lungaggini.

Gli operatori commerciali, quindi, preferivano inviare la materie prime nelle fabbriche cinesi ed europee, per poi riacquistare il prodotto finito e immetterlo sul mercato. Tutto ciò ha significato meno posti di lavoro rispetto alla capacità produttiva del continente e una forte esposizione dei prezzi ai mercati finanziari globali.

Le conseguenze negative sull’occupazione e sulla crescita economica del continente africano sono uno dei fattori che hanno determinato l’emigrazione in massa di forza lavoro.

Sia ben chiaro, la complessità di dazi e tariffe intra-africane è una diretta eredità del colonialismo. Sono stati i colonizzatori europei a imporre il sistema della monocoltura.

Le colonie, cioè, venivano obbligate a coltivare un'unica specie di prodotto agricolo, da vendere a basso prezzo solo al paese che li sfruttava. Dovevano, invece, acquistare tutti gli altri generi alimentari necessari dal paese colonizzatore. Stessa situazione per le risorse minerarie.

Dopo un sessantennio, stanchi di aspettare che siano gli europei ad aiutarli, ora gli africani hanno compreso di doversi aiutare da soli. L’accesso a un unico grande mercato senza dazi, infatti, incoraggerà i produttori locali ad adottare economie di scala. L’ abbassamento dei prezzi determinerà l’incremento della domanda interna e un conseguente incremento della produzione e dell’occupazione. Sarà grazie all’Afcfta se, nel prossimo futuro, si avrà presumibilmente un decremento delle migrazioni fuori dal continente.

Le prospettive dell’Afcfta sono ottimistiche soprattutto per le economie guida del continente

Un rapporto delle Nazioni Unite prevede il prossimo aumento del commercio intra-africano a livelli superiori al 50% e il raddoppio entro dieci anni. A prima vista, le previsioni dell’ONU sembrerebbero ottimistiche, tenuto conto che il nuovo mercato continentale si andrà a innestare in un contesto mondiale già globalizzato, con tutte le conseguenze del caso.

Va detto, però, che la globalizzazione sembra registrare una battuta di arresto, con le recenti guerre dei dazi dei giganti mondiali dell’economia. La guerra delle tariffe tra Stati Uniti e Cina, l’uscita degli stessi Usa dal partenariato trans-Pacifico e la Brexit, potrebbero perciò portare ulteriore acqua al mulino della nascente industria africana.

A beneficiarne saranno soprattutto le maggiori economie del continente. In primis la Nigeria che, con oltre 190 milioni di abitanti contende al Brasile il quinto posto mondiale in quanto a popolazione. Il Lagos è la prima economia del continente con il 17% del Pil di tutta l’Africa. Sino ad oggi, era più conveniente per il produttore nigeriano vendere petrolio e cemento ai paesi extra-africani, piuttosto che a quelli confinanti. Che, magari, erano costretti a comprare lo stesso prodotto, importandolo dalle economie degli altri continenti.

Seguono la Nigeria, il Sudafrica e l’Egitto. Questi tre paesi, da soli, producono oltre il 50% del Pil africano. A ruota non va trascurata l’Etiopia, con oltre 100 milioni di abitanti.

Il paese ha superato la grande crisi di alcuni anni fa e oggi ospita (e sfama) ben 4 milioni di profughi. Sono quattro paesi che, in teoria, potrebbero, in futuro, replicare l’asse Ue franco-tedesco in salsa locale. Li unisce un elemento trainante della loro economia: il ruolo della popolazione cristiana.

In Sudafrica, infatti, i cristiani sono l’80% a fronte di un 15% che si dichiara ateo od agnostico. In Etiopia sono i due terzi della popolazione; in Nigeria il 50% e, in Egitto, un industrioso 15-20%. Chissà che non sia proprio la religione dei colonizzatori a far risorgere l’Africa, anche economicamente.