Le statistiche più recenti effettuati dall'Ispesi (Istituto per la prevenzione e sicurezza sul lavoro) nel 2014 indicano in un milione e mezzo il numero di lavoratori vittime del mobbing sul posto di lavoro, cifra elevatissima e pari a circa il 7% degli occupati. Vedremo il perché le nostre leggi non sono sufficienti a scoraggiare questo fenomeno
In che cosa consiste il mobbing sul posto di lavoro
Il fenomeno mobbing veniva inizialmente riconosciuto nei paesi anglosassoni come processo che poteva arrecare danni psicofisici al lavoratore e pertanto andava in qualche modo contrastato; in Italia il nostro diritto del lavoro, con l'articolo 2087 del codice civile, riconosceva ben da prima, in capo al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, ma solo alla fine degli anni 90 il mobbing entrava nelle vertenze di lavoro come fenomeno a se stante.
La definizione che più mi sembra ben descrivere in cosa consiste un processo di mobbing sul posto di lavoro è quella emessa dal Tribunale di Forlì, nel marzo del 2001, che così recita:
" Comportamento reiterato nel tempo da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che, a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo, subisce conseguenze negative anche di ordine fisico".
La definizione ci permette di ricavare alcuni elementi distintivi di tale processo da non confondere con situazioni conflittuali, anche gravi, tra colleghi o tra capi e dipendenti, del tutto fisiologiche nei posti di lavoro. Un processo di mobbing è quindi un intervento intenzionale che ha come obiettivo quello di colpire psicologicamente il lavoratore il quale può arrivare a subire danni anche fisici.
È definito mobbing strategico quando si evidenzia una precisa volontà aziendale di ridimensionare od estromettere il dipendente vessato. Il dipendente può avere la certezza di essere sottoposto a mobbing strategico quando sia costretto a subire una o più di queste vessazioni:
- assegnazione di mansioni diverse e non equivalenti a quelle contrattuali;
- graduale svuotamento delle responsabilità contenute nelle mansioni originali;
- trasferimenti illegittimi da un'unità all'altra o addirittura da una sede all'altra, in modo da procurargli fastidi e/o danni economici;
- frequente assegnazione di incarichi diversi e per brevi periodo di tempo, in modo tale che diventa difficile espletare correttamente le proprie attività;
- assegnazione di posti di lavoro isolati, isolandolo fisicamente dal suo gruppo e collocandolo, talvolta, in ambienti malsani;
- esclusione dalle riunioni di gruppo;
- sottrazione o non assegnazione di apparecchiature aziendali standard.
Il mobbing non è previsto come reato
Sembra impossibile ma, mentre è relativamente semplice identificare quando un dipendente è sottoposto a mobbing, non è altrettanto semplice permettere allo stesso di difendersi e punire il datore di lavoro; il motivo di questa dicotomia risiede nel fatto che il mobbing non è previsto come reato, poiché nel nostro codice penale non è tipizzata la figura del mobber.
Questo non significa che non ci si possa difendere, ma è certamente molto difficoltoso dal momento che sta al dipendete dimostrare di essere stato sottoposto a mobbing sul posto di lavoro e non al datore di lavoro di difendersi dalle sue accuse.