Un recente commento del premier Renzi, esplicito quanto lapidario ed estrapolato da una dichiarazione riguardante la riforma della scuola, è foriero di un messaggio ben più profondo e drammatico. Il presidente dichiarava che i reclutamenti nel pubblico impiego devono rispondere a precisi criteri di sostenibilità economica. Questo semplice dato di fatto, sebbene condivisibile, fa scaturire alcuni interrogativi riguardanti non solo il settore scolastico ma anche quello universitario; ed è proprio sul destino di tanti dottori di ricerca che vorrei concentrare l'attenzione.
Andiamo con ordine. Lo stato ammette che, a malincuore, non tutti potranno entrare a far parte del corpo docente; l'università sostenibile significa che una certa percentuale rimane fuori e deve cercare alternative.
La chimera della mobilità dei ricercatori
Un recente articolo apparso sul Realtà Mapei (n. 25 2015) riporta una interessante analisi secondo cui la preparazione dei ricercatori, pur essendo di alta qualità, è lontana dalle logiche dell'industria e da competenze gestionali. Un adeguato apprendistato non è sostenibile nonostante sgravi fiscali e contributi, quindi, se è arduo il reclutamento degli "under 35", oltre si è completamente fuori dai giochi. La maggiore integrazione con l'industria è una soluzione di moda tra coalizioni di diverso colore, che, se concretizzata, potrebbe davvero risolvere il problema.
Tuttavia ci si dimentica sistematicamente del transitorio. A voler ben sperare, le nuove reclute saranno sicuramente adeguate, ma cosa accadrà alla pletora degli attuali precari? E di chi svolge da anni un lavoro intenso di produzione scientifica e di (spesso non pagata) didattica? Parliamo di chi, tra una borsa e periodi "fuori contratto", è in attesa di un concorso e di ricercatori senza certezza di riconferma.
Le riforme mancate
Lo stato non è esente da responsabilità, non quando presenta il dottorato come livello massimo del percorso di studi; non quando le università (enti pubblici) prospettano brillanti profili professionali appetibili per accademia ed industria. È forse da biasimare chi, a vent'anni, cerca non solo una remunerazione ma anche una crescita culturale e professionale?
Le regole del gioco, cambiate in corsa da ben tre riforme, hanno già prodotto una fase transitoria che ha sacrificato alcune garanzie (il tempo indeterminato per i ricercatori, oggi precari per 8 anni) promettendo prospettive di competitività (coordinamento con le imprese) mai concretizzate.
È triste il disinteresse, tanto politico quanto mediatico, nei confronti di questo drammatico limbo. È paradossale ignorare le prospettive di una categoria, la più lontana da ammortizzatori sociali, formata dal meglio di quanto l'istruzione abbia prodotto. Si parla di inserimento nel mercato per categorie svantaggiate quali detenuti, donne ed immigrati. L'ambito universitario, invece, vuole aprire un mercato eterogeneo ai futuri precari, ma non si cura di reintrodurre al lavoro quanti "sono troppo vecchi".
Ancora scontri generazionali?
È d'obbligo rendersi conto del danno che la società intera sta già subendo e del disagio sociale di un'intera generazione di precari (anche in altri settori) che inevitabilmente graverà su altre categorie. L'attuale scontro generazionale tra gli "anziani", con privilegi da prima repubblica, ed i "giovani" sta evolvendo in uno ben più tragico tra i nuovi giovani ed una generazione di precari, ormai invecchiata, considerata inutile, dispendiosa, parassita.