È del 2 luglio, l'approvazione di un emendamento del disegno di legge della Pubblica Amministrazione che stabilisce che i criteri di accesso ai concorsi pubblici non saranno più relativi solo al voto di uscita dall'Università, ma un differenziale sarà anche l'Ateneo presso cui si è conseguita la laurea.

Cosa significa?

L'emendamento, contestatissimo e rivoluzionario, specifica che così facendo si supera il requisito esclusivo del mero voto minimo di laurea. Anche se non abbiamo una prova certa perché il provvedimento è nuovo di zecca e quindi ancora non è stato applicato, si possono fare delle ipotesi.

Per esempio, se fino ad oggi un concorso stabiliva che per l'accesso occorreva il voto minimo di 100, d'ora in poi potrà capitare di trovare concorsi dove saranno ammessi laureati che sono usciti con voti inferiori ma che provengono da Università più importanti o dove la media dei voti dei laureati è più bassa.

Perché questa scelta si è resa necessaria?

L'emendamento è stato presentato da un onorevole del PD, Marco Meloni. Quest'ultimo ha dichiarato che il provvedimento servirà per la valutazione effettiva del laureato che non può essere lasciata solo al voto finale. L'importante è che i criteri di valutazione siano davvero rivolti a premiare preparazione e competenze acquisite. Inoltre si cerca di evitare che la scelta dei giovani che decidono di iscriversi alle Università sia condizionata dal fatto che un Ateneo è più propenso a dare voti alti.

Adesso toccherà al Governo recepire l'emendamento e preparare il decreto legislativo che seguirà le delega.

Chi classificherà gli Atenei?

Già oggi esiste il consorzio universitario, Almalaurea, che ogni fine anno fa il punto sulla situazione nelle Università. Inoltre esiste l'ANVUR (l'agenzia di valutazione universitaria), che censisce le università anche in base alla media dei voti dei suoi laureati.

Grazie ai parametri dell'ANVUR per esempio, si stabiliscono i criteri di concessione dei premi finanziari agli Atenei. Secondo i dati, ci sono Università più benevole nelle votazioni ed altri meno. Statisticamente le università del sud presentano laureati con voti più alti che al nord.

Le reazioni

Le associazioni di studenti parlano di "razzismo universitario", di norma classista.

Anche il coordinamento nazionale dei rettori contesta l'abolizione di fatto del valore del titolo conseguito. I numeri che si conoscono sull'universo degli Atenei dicono che nonostante votazioni medie più alte, i laureati che provengono da istituti del sud trovano lavoro meno che quelli del nord. Nei cinque anni post laurea, coloro che provengono da Atenei del sud trovano lavoro nel 75% dei casi contro l'87% dei laureati nel nord.

È sicuramente un emendamento che rischia di creare polemiche e di condizionare le scelte degli studenti fin dal momento di scegliere a che Ateneo iscriversi. Il Governo dovrebbe pensare di più a come risolvere le evidenti differenze che trovano i laureati nel mondo del lavoro e non prima di entrare in questo mondo.

I nostri politici dovrebbero capire e quindi sistemare le differenze di stipendi che trovano i laureati dopo la laurea. Infatti un laureato che trova lavoro al sud è pagato mediamente con 1.121 euro rispetto ai 1.373 euro che riesce a strappare un neoassunto al Nord. Se allarghiamo il campo dell'analisi anche all'estero si scopre poi che un laureato che trova impiego all'estero percepisce 2.043 euro di media. E poi ci si domanda perché i cervelli scappano via dall'Italia.