Per tecnopatia s’intende la malattia professionale che il lavoratore contrae in virtù dello svolgimento dell’attività lavorativa e che è dovuta all’esposizione nel tempo a dei fattori presenti nei luoghi di lavoro. Le tutele, per tali ipotesi, trovano la propria fonte nel D.P.R. n. 1124 del 1965 che prevede la possibilità di ricevere una copertura assicurativa da parte dell’INAIL per le malattie tabellate, inserite cioè nelle tabelle richiamate dalla legge. È inoltre prevista la possibilità per il lavoratore che possa aver contratto anche altre malattie non ricomprese nelle tabelle, di esser risarcito, previa dimostrazione del nesso causale tra lo svolgimento dell’attività lavorativa in un determinato ambiente di lavoro e la patologia (nesso di causa-effetto).

Circa la presenza di quei presupposti idonei a configurare la responsabilità del datore di lavoro, la giurisprudenza con una recente sentenza ha tracciato diversamente gli oneri probatori a carico del datore di lavoro, a seconda dell’omissione delle misure di sicurezza nominate o innominate.

Distinzione fra misure di sicurezza nominate e innominate

La Corte di Cassazione, nel caso specifico, riguardante la malattia professionale di una lavoratrice che aveva svolto per 38 anni un attività lavorativa che le aveva provocato un danno alla salute, ha ritenuto che se si tratta di misure di sicurezza “nominate, espressamente definite della legge, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è circoscritta alla negazione dell’inadempimento degli obblighi di sicurezza posti a suo carico.

Qualora invece viene in rilievo l’omissione di misure di sicurezza “innominate” previste dall’articolo 2087 c.c. che disciplina l’osservanza del generico obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro, egli deve provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze tecniche dagli standard di sicurezza normalmente osservati.

(Corte di Cass sentenza n. 22615 del 5.11.2015).

Presupposti per l’esonero della responsabilità del datore di lavoro

I giudici di legittimità, in questo caso, ritengono che la responsabilità del datore di lavoro è da ricondurre all’art.2087 c.c.. Essa è dunque di carattere contrattuale. Da ciò ne deriva che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio su lavoro si pone negli stessi termini di cui all’art1218 c.c.

che disciplina l’inadempimento delle obbligazioni. Gli ermellini ribadiscono che grava sul datore di lavoro, proprio in virtù del rapporto di lavoro che lo lega al dipendente, l’onere di fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento dannoso e che questo è stato determinato da eventi imprevedibili. Sulla base di tale ragionamento, la Cassazione, in questa vicenda, statuisce quindi la responsabilità del datore di lavoro. Essa si è da ravvisare, secondo i giudici di legittimità, nella tardiva adozione di quegli accorgimenti che se messi in atto in tempo avrebbero alleviato la pesantezza delle mansioni e rimosso la causa della accertata malattia agli arti superiori della lavoratrice.

La Cassazione, ha ravvisato inoltre che l’espletamento delle mansioni dalla lavoratrice è da ritenersi compatibile con il suo stato di salute attuale, comportando ciò l’aggravamento della sua persistente malattia agli arti superiori, di cui il datore di lavoro era a conoscenza, essendo consapevole altresì dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli. Per info di diritto premi tasto segui.