“Le diagnosi di DSA negli ultimi anni, nelle sue varie forme, sono notevolmente aumentate” ha riconosciuto il Ministero e, a dirla tutta, non sono mai stati così tante. Parliamo dei disturbi specifici dell’apprendimento che, secondo le ultime stime del Ministero dell’Istruzione, affliggerebbero circa 187mila soggetti in tutta Italia. Di questi almeno 109mila soffrirebbero di dislessia, 39mila sarebbero affetti da disgrafia, 47mila da disortografia e 42mila da discalculia: numeri preoccupanti, tanto più se si considera che secondo l’Associazione Italiana della Dislessia sarebbero molti di più (l’associazione ne conta circa 350mila unità).

Il “caso Como”

Soltanto in provincia di Como il censimento di gennaio ha rilevato 3.555 casi, per un incremento del 50% in soli tre anni (erano 2370 nel 2013). La maggiore incidenza si è avuta nella Scuola media dove dislessia e discalculia raggiungono tassi del’8,8% nelle scuole statali e ben 12,4% nelle scuola paritarie. Secondo l’analisi ministeriale, quest’abbondanza relativa nelle scuole medie sarebbe dovuta “alle difficoltà del passaggio dalla scuola primaria alla secondaria” a causa di una “minore flessibilità didattica e meno disponibilità da parte dei docenti”, causando una “caccia alla certificazione” cui addebitare eventuali carenze formative.

Strategia, pianificazione e analisi

Secondo Daniela Lucangeli dell’Associazione per il Coordinamento Nazionale Insegnanti Specializzati oggi è la formazione che viene meno: orientata sulla prestazione più che sulla funzione, essa misura il raggiungimento di determinati parametri senza andare ad analizzare la qualità dell’apprendimento del bambino.

Discorso analogo vale per gli strumenti compensativi previsti per la didattica personalizzata (si pensi alla calcolatrice o i programmi di video scrittura con correttore): solo differenziando le verifiche, analizzando le prestazioni ma allo stesso tempo anche come il bambino rielabora un apprendimento e comprendendo le cause degli errori questi strumenti diventano sostanziali, ha commentato Lucangeli.

Troppo spesso però rischia di essere questo un mero aggiustamento con cui si fa sì che il risultato sembri conforme alle aspettative: va invece analizzato l’errore, “capire perché il bambino lo compie” e adattarsi di conseguenza. Bene la tecnologia, ma sempre ricordando che questa “è uno strumento, non un sostituto” ricorda Lucangeli, imprescindibile dall’approccio strategico (basti pensare all’Olanda in cui il Governo vietato ufficialmente l’uso dei correttori automatici).

Le diagnosi: DSA o “learning disabilities”?

Altro punto delicato sono le diagnosi: anche su questo fronte Lucangeli invita alla cautela. Infatti, un conto è il numero dei bambini con DSA un altro quello delle diagnosi: alunni con profili complessi per cui i spesso vengono etichettati come disturbi specifici quelle che la letteratura definisce “difficoltà nell’apprendimento”. Occorre considerare poi le cosiddette learning difficulties, ragazzini che grazie ad aiuti specifici nelle strategie di apprendimento ottengono ottimi risultati: dei falsi positivi quindi che trattati opportunamente possono raggiungere i risultati scolastici richiesti. C’è dunque secondo Lucangeli un problema di riconoscimento dei DSA che troppo spesso vengono scambiati con difficoltà nella prestazione: “molti bambini che sembrano avere un disturbo del calcolo –afferma – in realtà non hanno difficoltà di apprendimento perché la didattica non esercita le giuste funzioni”.

Il problema atterrebbe poi anche al fatto che i centri di neuropsichiatria sono obbligati legalmente a certificare una diagnosi affinché il bambino possa avere accesso al trattamento personalizzato: ecco dunque che anche i bambini che avrebbero solo bisogno di “una mano” di colpo diventano affetti da DSA.