Emergenza sociale sulle Pensioni, sistema che non funziona, troppa rigidità della Legge Fornero, sono i motivi che stanno spingendo il nuovo Governo a pensare alla riforma previdenziale. Emergenza sociale è un termine che ha utilizzato Di Maio parlando di pensioni. Quota 100 secondo il nuovo Ministro del Lavoro e Vice Premier andrà inserita immediatamente nella Legge di Bilancio perché il sistema pensionistico nostrano va riformato. Quota 100 è la prima misura su cui il Governo sta puntando, per poi allargare il campo ad opzione donna e quota 41.
Le risorse però sono esigue e sono sempre le coperture finanziarie il problema. L’esperto previdenziale della Lega, Brambilla, ha ipotizzato l’inserimento di un incentivo a restare al lavoro anche oltre le nuove soglie di acceso che potrebbero essere inserite. Un bonus che va nella direzione del già vigente part time pensione di cui tratta un eloquente articolo odierno dell’agenzia di stampa AdnKronos. Tutte misure che incentivando i lavoratori a restare al lavoro, vanno nella direzione di ridurre la platea dei nuovi pensionati per incidere poco sui conti pubblici.
Il part time pensionistico
Una misura introdotta dalla Legge di Stabilità del 2016, a dire il vero poco utilizzata, offre una possibilità a coloro che una volta raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia o per quella anticipata, decidono di restare al lavoro.
Per quanti hanno già raggiunto i 66 anni e 7 mesi di età con almeno 20 di contributi (dal 2019 si passa a 67), oppure i 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva (un anno in meno per le donne e per tutti 5 mesi in più dal 2019), restare al lavoro può essere una opzione conveniente. Infatti si può utilizzare il part time pensione, per un massimo di 3 anni passando però da un orario di lavoro full-time ad uno ridotto.
Una opzione appannaggio esclusivamente dai lavoratori del settore privato.
In questo modo e per tutta la durata è possibile beneficiare di un incentivo in busta paga senza rimetterci nulla dal punto di vista della contribuzione. In estrema sintesi, la contribuzione previdenziale perduta dalla riduzione di orario di lavoro e quindi risparmiata dalla ditta per cui si lavora, finirebbe in busta paga aumentando lo stipendio di un buon 33%.
La parte di contributi mancanti, cioè non versati per le ore di lavoro in meno che si svolgono, verrebbe coperta dallo Stato senza che il lavoratore subisca riduzioni di assegno pensionistico in virtù della riduzione stessa. In pratica, l’INPS accredita i contributi sul 100% della retribuzione e non su quella part time ed al lavoratore la busta paga diventa comunque più pesante. L’orario di lavoro può essere ridotto tra il 40 ed il 60% ed è necessario trovare un accordo con il proprio datore di lavoro.
Un bonus ai quota 100
Una misura già sperimentata da un Governo Berlusconi e dall’allora Ministro Maroni sembra sia tornata in auge tra le ipotesi di riforma di cui tanto si parla. Un incentivo o un superbonus come lo si usa chiamare, che dovrebbe spingere chi raggiungerà la quota 100, se davvero dovesse essere emanata, a restare comunque al lavoro.
Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi Itinerari Previdenziali, nonché esperto previdenziale a cui si affida la Lega per i suoi programmi pensionistici, ha lanciato questa idea al fine di ridurre i potenziali richiedenti della quota 100.
La misura che sembra davvero essere in procinto di entrare nell’ordinamento previdenziale, consentirebbe di accedere alla quiescenza con almeno 64 anni di età e 36 di contributi. In alternativa, ne servirebbero 65 o 66 di età e rispettivamente 35 o 34 di contributi versati. Il superbonus invece sarebbe un incentivo a restare al lavoro per chiunque, nonostante rientri nelle combinazioni prima citate, decida di restare al lavoro. In busta paga per quanti opterebbero per questa soluzione, finirebbe il corrispettivo della contribuzione previdenziale prevista per la permanenza al lavoro, un surplus di oltre il 30% in più di stipendio.