È sempre facile comprare i vestiti senza chiedersi da dove vengano; allo stesso modo è farlo in tutta coscienza, ma ignorando il dettaglio. Ancora più terribile, ma da parte delle aziende, è fingere che la moda sia artigianato locale, quando invece è mero sfruttamento delle popolazioni più povere. La produzione tessile, in Italia, è da sempre un vanto per il paese e la moda è decisamente un campo in cui non solo siamo pressoché insuperabili, ma è stato addirittura in grado di superare il momento di crisi più o meno indenne.

Il problema si pone quando il Made in Italy è solo un nome di prestigio, perché nella realtà concreta è sinonimo di mercato privo di scrupoli e orrore umanitario.

Al Rana Plaza, in Bangladesh, un enorme complesso di fabbriche che si occupano di cucire gli abiti per le multinazionali miliardarie che noi compriamo a un prezzo minimo di venti euro, 1134 operai sono rimasti sepolti vivi sotto le macerie e oltre 2000 sono scampati: molti non ce l'hanno fatta a qualche tempo dal disastro, altri sono riusciti a salvarsi auto-mutilandosi una gamba o un braccio. È successo il 20 aprile 2013.

L'ONU ha immediatamente varato il Rana Plaza Arrangement, un programma in cui le maggiori multinazionali del mondo si propongono di fare la propria parte, in particolare con la copertura delle spese, al fine di risarcire le vittime e le loro famiglie dei danni fisici e morali.

Una delle aziende sicuramente coinvolte, tuttavia, ha deciso di non pagare ed è la Benetton, la celebre azienda italiana. Fra breve parteciperà alla Settimana della Moda di Milano (25 febbraio-2 marzo), ma non ha nessuna intenzione di devolvere la propria quota agli uomini, alle donne e, sì, anche ai bambini, che sono morti o rimasti gravemente feriti cucendo i suoi vestiti: certo, anche parlando oltre la moda, l'immagine è tutto.

Chiedono giustizia non solo le associazioni come Clean Clothes Campaign e Abiti Puliti, ma anche coloro che non vogliono avere nulla a che fare con questo disastro né con un comportamento indifferente come quello che sta dimostrando il marchio italiano. È importante parlare di Made in Italy, ovvero di salvaguardia di una nobile tradizione e di un gusto invidiato da tutto il mondo, ma come si può vantare un legame con questa tragedia?

Allo stesso tempo, si parla molto spesso di mercato equo-solidale che favorisca un incremento commerciale nei paesi più marginali e poveri, ma come è possibile se, dietro la pubblicità e le parole di solidarietà, ancora nel 2015 si dimenticano gli schiavi che hanno cucito i vestiti che indossiamo quotidianamente (sì, anche quelli per stare in casa!)? Se il comportamento adottato dal brand italiano, non c'è nulla di cui essere fieri nel Made in Italy.