Dopo la bomba "Charamsa" (esatto opposto del camerlengo Patrick McKenna di "Angeli e demoni") e il conseguente codazzo mediatico che ne è scaturito, mi pare opportuno riflettere sui prodromi che questa, e altre vicende simili e meno mediatiche, portano in se.Premetto che chi scrive ha preceduto, l'ormai noto Monsignore, di ben cinque anni nella stessa scelta e nell'anonimato più assoluto dopo quindici anni di sacerdozio .Non entro nel merito delle vicende personali di Mons.Charamsa, ma desidero far luce sualcuni punti essenziali per capire come,questo tipo di scelte, arrivino sino al punto di rottura con la dottrina.
La formazione in seminario
Partiamo dal dato di fatto che ciascuno di noi nasce con l'orientamento sessuale che gli è proprio e che nessuno ha il diritto di censurare e limitare. Il problema per la Chiesa non è l'orientamento sessuale del candidato al sacerdozio. Infatti all'ingressoin seminario non viene chiesto che orientamento sessuale ha il candidato al sacerdozio.Perche?Molti disconoscono che i preti non fanno voto di castità, e neppure quello di povertà, ma solo quello di celibato e di obbedienza (retaggio di un’impostazione medievale voluta dal papa-monaco Gregorio VII).Il celibato, secondo la dottrina cattolica, sarebbe la garanzia della castità. Infatti, il sesso è contemplato solo all’interno del matrimonio e quindi essere celibisignifica essere casti.
Qualcuno, a ragione, riderà, ma nel mondo ecclesiasticoè del tutto ovvio.Il seminarista,nel corso dei sei anni di preparazione, viene edotto circa ogniaspetto della dottrina cattolica sino nei minimi particolari e accompagnato nelle scelte future con attenzione e fiducia.Nel frattempo vive con soli uomini per sei anni, durante i quali si accumulano tensioni, contrasti e pressioni psicologiche che, come in tutti i luoghi di lavoro e di vita, portano lentamente a compromessi e cedimenti.Se all'inizio del percorso di seminario le intenzioni sono delle migliori, con il tempo, si fiaccano e pian piano si accomodano.
E alla fine, anche in seminario, arriva la prima amicizia "particolare" con tutto quello che ne deriva. Dopo l'ordinazione qualsiasi soggetto, gay o etero, sicuro dello "status" raggiunto, può tranquillamente gestire una seconda vita parallela a quella ufficiale.
Allora cosa sta succedendo?
Non tutto il clero vive questi drammi e vive serenamente la propria vocazione.Chi ha colpa?Chi si fa prete credendo in una vocazione che lo completi, scoprendo invece che l'ha reso infelice?
Non voglio esprimere giudizi, néproporre condanne retoriche e assurde.Mi chiedo solo se, come diceva Don Milani, (ovviamente per altri motivi) l'obbedienza sia ancora una virtù.Molti sono morti d'obbedienza cieca e insensata, e gli stessi cattolici che commentano sui social con tanta cattiveria, spesso non ne hanno neanche il sentore e non ne percepiscono l'inutilità.C'è più coraggio in un prete spretato che affronta la propria natura e ne rende partecipe gli altri, che in un bigotto che si riempie la bocca d’infarciture clericali e pretende dai suoi pastori una fedeltà alla Chiesa che spesso non ha neanche lui. Quanto sta accadendo dovrebbe farci ricordare che Gesù un giorno ha invitato i suoi discepoli a guardare la trave nel nostro occhio invece della pagliuzza in quello del fratello.Auguro a Krzysztof e a Eduard il meglio della vita, anche perché la scelta è difficile per chi lascia, ma impegnativa per chi la condivide.Se l’obbedienza non è più una virtù almeno è una scelta!