Una sconfitta netta. Solo 8 dei 25 capoluoghi di provincia in cui si eleggeva il sindaco sono restati al Pd. Il voto delle grandi città è sempre un voto politico. Attraverso l'elezione del sindaco si esprime anche un giudizio sul governo. Ed in questo caso il giudizio è inequivocabilmente negativo.

Già dopo il primo turno la sconfitta era evidente. Oggi, il giorno dopo i ballottaggi, gli scricchiolii della costruzione renziana però sono molto più rumorosi. Iniziano a essere troppo forti per poter essere ancora ignorati.

La sconfitta di Roma era largamente prevista.

C'era la convinzione diffusa, o la consapevolezza, che per eleggere Giachetti sindaco ci sarebbe voluto un miracolo. Miracolo che puntualmente non è avvenuto. Come previsto la Capitale è andata alla Raggi. Ma colpisce il divario fra le parti. Se nei giorni scorsi qualcuno aveva diffuso l'idea che la sconfitta sarebbe avvenuta a causa della minoranza Dem (di D'Alema, per intenderci) oggi deve ritirare tutto. I voti di Raggi sono troppi e quelli di Giachetti troppo pochi, e certamente non a causa di D'Alema.

A Milano Beppe Sala riesce a mantenere lo stesso vantaggio risicato del primo turno. A Bologna il sindaco uscente Virglio Merola viene riconfermato, dopo qualche brivido.

La vera sorpresa è Torino.

Fassino era uscito come favorito il 6 giugno. Portava in dote un ampio margine di vantaggio. Ed invece oggi subisce la rimonta della candidata del Movimento 5 stelle e viene anche distanziato.

Per il resto il Pd perde quasi dapertutto. Perde nel Friuli amministrato dal vicesegretario Serracchiani (Trieste e Pordenone, entrambi comuni che fino a ieri erano amministrati dal centrosinistra).

Perde tutte le città che poteva perdere in Sardegna (Olbia e Carbonia). Perde a Savona, a Grosseto, a Novara, a Isernia, a Savona, a Benevento e a Crotone. Le uniche note positive sono Caserta e Varese (roccaforte della destra)

Appare chiara la tendenza dell'elettorato. Ed infatti oggi si denunciano le ammucchiate di “tutti contro il Pd, tutti contro il governo, tutti contro Renzi”.

Ma è chiaro che il principale responsabile della situazione è Renzi stesso. È chiaro che le responsabilità della sconfitta del Pd sono da ricercarsi all'interno del Pd. È il segretario ad aver colpevolmente guidato il Partito a una crociata solitaria contro tutti (contro i conservatori, i rosiconi, i gufi). È il segretario ad aver costruito il deserto intorno a sé, etichettando tutti gli oppositori come nemici del cambiamento (dai sindacati contrari al Jobs act, ai professori che hanno protestato contro la Buona scuola). La ricerca del nemico in ogni provvedimento del governo ha influito (e non poco) sul risultato negativo odierno.

Un altro macigno ha pesato sulla sconfitta: la totale assenza di una classe dirigente locale.

Ed anche questo fatto è direttamente riconducibile alle volontà del premier. A largo del Nazareno è stato volutamente ignorato l'esodo di iscritti e simpatizzanti (ed anche di elettori, numeri alla mano), ed oggi si raccolgono i frutti. Il Partito democratico sta perdendo quel vantaggio che era la macchina organizzativa ereditata dal PCI (e Pds e Ds). Ed anche qui emergono le volontà del Presidente\segretario, desideroso di rottamare tutto e tutti. Ma se la classe dirigente locale, la presenza nei territori, è stata la vera forza della “ditta”, rottamarla è un rischio. Come è un rischio annunciare che la futura classe dirigente del Partito sarà costituita dai Comitati del Sì per il referendum di ottobre.

Eppure il segretario non se ne vuole rendere conto, ed anzi dichiara che la sconfitta è il frutto del suo comportamento (“Renzi non ha fatto Renzi”) e che forse ha "rottamato troppo poco".

Se ne deduce che il segretario\presidente non ha imparato la lezione. Per il prossimo venerdì è convocata la direzione nazionale del Partito. Vedremo se il segretario arriverà, come annunciato, con il lanciafiamme o se sarà lui stesso la vittima delle armi dell'opposizione interna.