Eccetto la calata degli angioini, l'ignorata paternità del Campari - nato al Caffè dell'Amicizia, locale acquistato da Gaspare Campari nel 1860 - e la sconfitta dei piemontesi ad opera delle truppe di Radetzky, non esistono valide ragioni per cui un essere umano dovrebbe ricordarsi di Novara. A riprova di questo, vi è il fatto che la zona del novarese viene concepita nell'immaginario popolare come una distesa di risaie, allevamenti intensivi di zanzare, quasi del tutto estranea alle innovazioni culturali e politiche che si sono avvicendate nel paese.
Eppure, la cecità delle istituzioni cittadine e la loro secolare campagna di castrazione di qualsivoglia forma di creatività, non è stata sufficiente a fermare le aspettative e i progetti di un gruppo di artisti intraprendenti, che nell'anno appena trascorso hanno portato all'attenzione mediatica il sottobosco artistico novarese.
Il Gruppo MOCO
A dispetto della tradizione, endemicamente italiana, che sancisce l'impossibilità di ottenere l'appoggio - o anche solo l'orecchio - delle istituzione senza preventiva presentazione di un comune amico, il Gruppo MOCO è riuscito nell'intento di ottenere la Sala dell'Accademia del Broletto, inaugurando l'anno passato una mostra dedicata alle Tentazioni, alla presenza del sindaco uscente Ballarè e delle massime autorità cittadine.
Oltre al successo cittadino, la collettiva ebbe il merito, sottolineato dalle colonne de La Stampa, di aver oscurato la mostra principale dedicata a Caravaggio, giustamente osteggiata a causa della mancanza di opere certificate del Merisi. Per la cronaca, vi era un quadro attribuito, qualunque cosa significhi nel lessico critico.
A corollario della retrospettiva vi fu un lungo percorso, precedente e successivo, di collettive svolte tra Vigevano, Torino e Novara, che portarono il gruppo all'attenzione del pubblico. A presiederne il comitato esecutivo troviamo Fabrizio Molinario, innovatore delle vetuste definizioni di brut e outsider art, Riccardo Corciolani, paladino del figurativo, psicologo da bancone e fumettista, Walter Simonetti, continuatore moderno della tradizione del mosaico bizantino, il metafisico Stefano Invernizzi, la cui intellettualità è ovviamente preclusa alla finitezza dell'animo mortale, e l'astro della string art Luca Ponticello.
Il gruppo è la risultante della convergenza di stili e filosofie antitetiche, che nella confusione della creatività trovano la loro giustapposizione. Ma cosa aspettarsi da una città che organizza mostre di Caravaggio con stampe digitali e neppure un misero tovagliolo originale da esporre a un pubblicò mentalmente anziano? Nulla, stando alla quantità di discorsi nostalgici in cui si rimpiangono i tempi in cui in città c'erano tre discoteche invece che una. La risposta, presumibilmente, dovrebbe essere proprio il dinamismo e l'equilibrio della diversità. La loro arte combatte gli stupri culturali dell'informale e getta un virgola di speranza in un panorama che pare non riuscire ad affrancarsi da Marina Abramovich e dalle generiche masturbazioni del concettuale.
In una città non più viva delle edicole cimiteriali del Monumentale, ma del tutto priva del valore storico dei disegni del Piermarini, non si può che confidare in quei progetti che saggiamente ignorano le aspettative di un pubblico intellettualmente anziano e miope, estraneo all'innovazione. Se dunque esistesse un significato intrinseco alla storia dell'arte che Vasari, Burke e Rusking non abbiano già evidenziato, quello sarebbe l'intraprendenza. L'Italia è un paese demograficamente inerte, desueto, povero di concetti ma non ancora seppellito e nell'opera degli eterni ragazzi è giusto porre la nostra fiducia.