Molti di loro, quelli che noi chiamiamo “migranti” non hanno mai visto una cartina del nostro pianeta. Conoscono a malapena la strada che li conduce da casa verso la madrasa o la scuola. Vivono in terre che gli occidentali definirebbero affascinanti, che alimentano quel mal d’Africa per i viaggiatori più temerari, ma viverci, anzi sopravviverci vuol dire altro. Perché non è vita quella fatta di povertà, assenze, morti premature, violenze, corruzione, analfabetismo e soccombenza.

Si parte con la speranza di un futuro migliore, di libertà. Già la libertà, che a noi sembra qualcosa di dovuto, qualcosa di sicuro giocando a volte all’essere un po’ vagamente prigionieri del nostro mondo 2.0.

Ci piace farci seguire e controllare, amiamo postare e pubblicare sui social affinché tutti sappiano dove ci troviamo, cosa stiamo facendo. Ed è così che il nostro privato diventa mercé del pubblico.

Ma in quei posti non si è sotto l’egida dei potenti social media, non si è sotto il controllo della premura genitoriale, si scappa da altro ed anche se non sono guerre combattute ufficialmente su campo, sono conflitti subdoli che si insinuano nei meandri della vita privata, rendendo l’esistenza stessa impossibile.

Non è facile immergersi in un mondo così lontano dal nostro, a volte non è facile capire e non mi riferisco soltanto alle differenze religiose, culturali, di cibo.

In quei posti, da dove si fugge, a volte la vita pesa, si sente la gravità della propria esistenza.

Una bocca da sfamare in più, un animo da dover essere convertito ad un altro credo, un frutto peccaminoso del proprio coniuge con un’altra donna che non dovrà essere soltanto ignorato, ma completamente estirpato, annientato.

Ci chiamiamo Abdullah Aziz, Ismail e Muhammad

Non sappiamo quando siamo nati, o meglio possiamo riuscire a far due conti in base ai nostri fratelli minori riuscendo a capire più o meno quanti anni avevamo quando abbiamo sentito il loro primo gemito.

Avremo forse vent’anni, o forse ventidue abbiamo la barba e le spalle grosse, saremmo potuti già essere in età di matrimonio se fossimo restati lì nel sub Sahara.

Ci siamo incontrati su un barcone, giù nella stiva tra gli urli dei bambini, le donne con occhi vitrei dopo le violenze subite e la puzza nauseabonda del piscio fermentato al sole e del vomito.

Il primo giorno vomiti quel tozzo di pane che era la tua razione in quella dannata prigione libica dove a turno siamo stati picchiati, beffeggiati, derisi. Poi vorresti vomitare le tue interiora, ma non ci riesci perché fame non si ha e seppur l’avessi non sei un tarlo non puoi mangiare del legno corroso dal sale.

Non parliamo tra noi, se non appena giunti a riva per imbarcarci correndo dalla prigione forzata, ci guardiamo... sappiamo che un movimento brusco potrebbe portarci in fondo al mare. Aziz non sa nuotare, sembra il più piccolo di noi tre e a dire il vero neanche noi altri siamo dei grandi nuotatori. Il mare non sapevamo neanche come fosse prima che arrivassimo in libia.

Ci avevano promesso una vita migliore in quel paese, ma non ricordo altro che violenze. Abbiamo finito con l’abituarci ai pianti e agli strazi delle donne, alle incursioni degli Hasma boy, ad essere derubato e picchiato per strada, a chiedere l’elemosina nelle stazioni, a sputare sangue dopo un pestaggio, e ad essere catturato dalla polizia libica, rinchiuso, vessato, per poi scappare e tentare di prendere il mare per non so dove, l’Italia dicono. Inferno libico

Di questo paese sappiamo solo del suo calcio e della libertà che vi è.

Niente più mogli dei nostri padri che ci malmenano per essere figli della moglie più giovane, niente più guerre religiose, nessuna paura più di dimostrare il proprio dissenso verso il proprio governo. La smetteremo, ne siamo certi, di mangiare polvere, di aspettare che arrivi la pioggia come fosse un miracolo, di vedere quelle mucche scarne incamminarsi per gli arsi campi. Pregheremo e ringrazieremo iddio per averci portato lì sani e salvi e poi saremo finalmente liberi.

Pensiamo sia notte, vediamo una luce puntata verso la prua, la stiva è completamente piena non c’è tempo per il panico, non c’è tempo per pensare, la barca comincia a muoversi tutti si spostano verso destra. Un megafono parla, è francese… forse sono i libici, abbiamo paura sì, di ritornare all’inferno.

Imbarchiamo acqua, affonderemo… non sappiamo nuotare. Abdullah Aziz è immobile in posizione fetale l’acqua gli arriva di già al collo.

Qualcuno si butta a mare, cerchiamo di risalire dobbiamo calpestare un vecchio immobile, che Dio ci perdoni. Ismail vomita è avvinghiato alla mia gamba… devo salvarmi non posso affondare. Guardo Abdullah Aziz un’ultima volta, no non avrà avuto vent’anni lo scorgo piccolo e indifeso mentre la luce del gommone salvatore ci illumina il viso. I numeri dell'ecatombe mediterranea