Ritorno sulla notizia di qualche giorno fa, quando a Firenze il sessantacinquenne Roberto Pirrone uccideva un senegalese come alterativa al togliersi la vita. Non ne voglio fare un discorso di discriminazione razziale, perché ritengo non sia questo il punto centrale della questione.

Il dramma è la motivazione che spinge un uomo a volersi suicidare per problemi economici, il dramma è la situazione di isolamento che attanaglia l’uomo, il dramma è sorvolare su tutto questo e far virare il discorso sulle problematiche dell’immigrazione.

Il terrificante episodio di Perrone non riguarda il razzismo, ma la disperazione di chi si sente solo, fallito, incapace di trovare una soluzione.

La morsa della disperazione

È una morsa tremenda, quella della disperazione, che spesso viene sottovalutata.

Poi succede, qualcuno cerca la morte e le persone attorno sembrano svegliarsi dal torpore e accorgersi che sì, il tizio appariva preoccupato, ma chi l’avrebbe mai detto che sarebbe arrivato a tanto.

Siamo più sensibili agli animali

Sembra che la sensibilità nei confronti degli animali sia in aumento rispetto a quella verso gli umani; per sincerarsene basta mettere sul bancone di un esercizio pubblico una boccia per le offerte con l’immagine di cagnolini da sfamare, una con la fotografia di un bambino o di un vecchio e stare a vedere quale delle due si riempie.

È pur vero che la richiesta assediante di denaro su tutti i fronti ci ha reso estremamente diffidenti, ma domandiamoci se ci siamo mai chiesti come si senta il nostro vicino di casa che ha perso il lavoro, l’imprenditore che ha le banche addosso ogni giorno, l’anziano che deve sopravvivere con cinquecento euro di pensione al mese, l’adolescente angosciato dai problemi dei genitori che si sommano ai suoi.

La forza della comunità non esiste più

Quando le famiglie numerose esistevano e abitavano vicine, quando i vecchi erano una preziosa risorsa di saggezza, quando le donne la sera si riunivano nei cortili per raccontarsi le difficoltà della giornata mentre i loro figli giocavano a nascondino, il problema di uno era il problema di tutti, lo psicologo non serviva, nessuno si sentiva solo perché esistevano la condivisione e la comunità.

Innanzi ad un guaio, le famiglie cercavano insieme una soluzione, il peso dell’accaduto non era più solo sulle spalle del singolo, ma veniva suddiviso fra tutti e non si rivelava più troppo pesante da portare.

Mi ha colpito dell'assurdo gesto di Roberto Pirrone, il suo non saper dove sbattere la testa, il suo non aver nessuno sul quale poter veramente contare, il suo concepire come soluzione ad una vita di solitudine e miseria, la galera, con il peso di un omicidio sulla coscienza.

Gridare "no" alla vita

Roberto Pirrone, prima ancora di aver pensato al suicidio e prima di aver ucciso un uomo, è la testimonianza vivente dello stato di isolamento nel quale moltissime persone vivono, condizione che diventa gabbia glaciale per uscire dalla quale si è disposti a tutto: ad ammalarsi, a suicidarsi, ad ammazzare.

Tre modi per rinunciare all’esistenza, tre urli in apparenza diversi ma identici nel decretare un forte “no” alla vita.