Intellettuale e scrittore ma soprattutto testimone di quelle che furono le pagine più tristi della storia europea e non solo, Primo Levi moriva l’11 aprile 1987 da suicida, gettandosi nella tromba delle scale del suo palazzo, nel centro di Torino.

Nessuno ha mai conosciuto i motivi che lo spinsero a questo gesto estremo, anche se molto è stato scritto, per dare un senso a una morte volontaria considerata assurda per chi, come lui, era sopravvissuto ad Auschwitz.

Primo Levi, un uomo triste e demoralizzato

Oggi rispuntano vecchi articoli di quotidiani di 34 anni fa, dove la triste notizia del giorno era il suicidio di Primo Levi; un gesto estremo di chi per una vita ha aspettato la salvezza di un Dio che, alla fine, ha scoperto che non sarebbe potuto esistere, perché “Se c’è Auschwitz non c’è Dio”.

Decise di togliersi la vita con un volo di quindici metri; così ci lasciò a 68 anni uno dei simboli più importanti della cultura italiana e mondiale del Novecento, che da tempo ormai si era spento e demoralizzato. Il gesto suicida gli balenò in testa in una mattina come le altre, e niente aveva fatto presagire quello che sarebbe accaduto da lì a breve; Primo Levi ritirò la posta dalla portinaia che non notò niente di diverso nel suo volto, se non una tranquillità persa ormai da tempo; scese dal terzo piano ed entrò nella guardiola, pochi minuti dopo il tonfo e il corpo accovacciato di Primo Levi al lato dell’ascensore.

Non tardò a rientrare Lucia Levi, che con la spesa in mano si ritrovò l’uomo della sua vita a terra in una pozza di sangue; chi assistette alla scena, tra cui l’amico Francesco Quaglia, racconterà di una scena terrificante; di una moglie che abbracciava l’amato inerme gridando come quel gesto era stato sospettato e temuto.

Si spegneva così, 34 anni fa, una delle più eccelse coscienze della nostra cultura, che era sopravvissuto ad Auschwitz ma non a stesso.

Primo Levi, il dolore di un’anima lacerata

Primo Levi che tra i primi fece luce sugli orrori dell’Olocausto, con il suo il coraggio di denunciare e testimoniare le atrocità di quel periodo, si riscopre, nel suo gesto suicida, a essere semplicemente un uomo che può stancarsi di vivere, di combattere e di cercare di sopravvivere ai mostri di un passato che forse non lo abbandonarono mai.

Eppure lo diceva lui stesso: “Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”, e lui certamente perse anche più di se stesso nella sua esperienza ad Auschwitz. Tra i campi di concentramento visse come “non più vivo” per troppo tempo, in un lager che era fame di cibo e vita e che alla fine lo portò alla triste consapevolezza di chi non si aspettava più niente dalla vita stessa.

Per lui, che considerava la vita come uno scopo, improvvisamente si ritrovò sterile di obiettivi e soffrì forse quel triste senso di colpa che provano gli ebrei scampati all’Olocausto: ovvero di essere “colpevoli” di essere sopravvissuti.

'Se questo è un uomo', l'eredità di Primo Levi alle nuove generazioni

Il capolavoro di Primo Levi, così come altre sue importanti opere, raccontano lo straziante percorso di un uomo privato della sua dignità, raccontato nella sua nudità fisica e morale. “Se questo è un uomo” è un romanzo-testimonianza che oggi più che mai deve ispirare le nuove generazioni verso principi di tolleranza e uguaglianza, per evitare che la storia possa ripetersi rendendo vano il lavoro coraggioso di Primo Levi.

Tra le pagine di questo libro che diventa un documento storico per l'umanità, Primo Levi racconta con un grandissimo senso di umanità, dignità e altezza morale, gli orrori dell’Olocausto e le violenze naziste di cui non evita atroci particolari affinché possano servire da monito per non ricadere negli stessi errori passati.

Esorta a ricordare, a chi ora vive tranquillo nella propria casa, che ci sono stati uomini che non hanno conosciuto pace, che hanno lavorato nel fango e combattuto per un pezzo di pane; che sono morti per un si e per un no, e donne senza nome e volto e con freddo nel grembo a cui è stata tolta la forza e la vita.

Primo Levi comanda queste parole affinché vengano scolpite nel nostro cuore e noi le possiamo ripetere ai figli dei nostri figli per evitare che tutto ciò non accada più.

Un messaggio, quello di primo Levi che purtroppo spesso si dimentica; le sue parole che scrivono come "lo straniero non è nemico", ci riportano immancabilmente a una storia presente fatta di intolleranza e razzismo verso l’immigrato, di violenza contro chi è diverso da noi, che diventa un segnale di pericolo di una falla culturale che va sistemata prima che sia troppo tardi.