Alla violenza di ordine linguistico-performativo è connessa una violenza di ordine temporale che richiede alcune considerazioni, sempre prestando attenzione a quanto sta accadendo quotidianamente nelle nostre vite. Fino al dilagare incontrollato dell’epidemia da coronavirus, le società mondiali del capitalismo ipertecnologico – da Occidente a Oriente, in un regime di unità performativa scarsamente predittivo – hanno vissuto fino ad ora in un regime temporale in cui il fenomeno della dispersione ha prodotto e riprodotto l’accelerazione come sua diretta conseguenza, contribuendo a gettare intere popolazioni nelle maglie di un «principio di prestazione» scandito puntualmente dai supporti tecnologici.

In questo caso, come è stato osservato dagli studiosi delle nuove forme di lavoro, la tecnologia ha trasferito nella società intera i tempi e i ritmi del lavoro di fabbrica, facendo di fatto rientrare tutta la società nella vecchia fabbrica, con ripercussioni drammatiche nella organizzazione sia del tempo di lavoro che del tempo libero, il quale si è modellato socialmente in larga misura sul tempo di lavoro (1). Inaspettatamente, con la pandemia tutto questo ingranaggio all’improvviso si è arrestato, un grande getto di acqua gelida si è riversato su un motore sociale ancora troppo caldo, facendolo implodere tanto sul versante privato che sulla scena pubblica, riportando in primo piano il tempo soggettivo e, per molti individui, il suo cattivo odore(2).

Ho appena utilizzato questa espressione in quanto fortemente motivato da una buona dose di realismo(3): lo stato di emergenza sta dimostrando che la distanza non è un pathos (come voleva Nietzsche), quanto piuttosto un mythos molto polemico, soprattutto per un animale sociale come l’uomo. Forse l’esperienza della distanza concepita secondo questo significato può essere interpretata come il risvolto di quell’«atmosfera» che fino ad oggi ha avvolto il «realismo capitalista», pervadendo e condizionando il lavoro e l’educazione, agendo «come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione»(4).

Per poter approfondire in pieno il tempo della coscienza assieme al suo spessore di «durata pura» (vedi Bergson), occorrerebbe la sua conversione in tempo sociale, secondo una pluralità di durate: il tempo interiore non può restare una pratica circoscritta nel limite solipsistico dell’egoità. Rispetto a questa vera e propria necessità, rispetto a questa urgenza di fronte alla quale tutta la società fino alla pandemia ha saputo soltanto gettare la spugna, la maggior parte di individui si è scoperta oggi impreparata, optando piuttosto o per la semplice rassegnazione o, nei casi più diffusi, per la conservazione di ritmi, in seno alla reclusione domestica, solo parzialmente accelerati, in quanto scanditi comunque da attività materiali ripetitive o piuttosto dalla intossicazione tecnologica, dovuta anch’essa dalla ripetizione e all’accelerazione, ma soprattutto, ancora una volta, dalla dispersione temporale.

Nel contempo si è imposto il dovere (e, si badi, non il libero e motivato desiderio) dell’attesa a seguito della posticipazione indefinita(5), difficilmente traducibile per la maggioranza degli individui nei termini di una stoica imperturbabilità d’animo.

Anzi, possiamo affermare con buone ragioni che anche nel corso della pandemia hanno avuto la meglio di nuovo la dispersione temporale e l’accelerazione, essendosi soltanto, per così dire, circoscritte alle esistenze recluse all’interno delle proprietà private. Il tempo interiore e la stoica atarassia che ne deriva sono rimasti soltanto un privilegio di pochi eletti ancora protetti dal benessere economico e dal supporto dell’alta cultura, perché la pandemia non ha ridotto le differenze di classe ma le ha acuite, neutralizzando nello stesso tempo l’iniziativa storica, già di per sé molto indebolita, della classe operaia, che è rimasta ancora una volta nella trappola del realismo capitalista(6).

Si è cercato di interpretare l’improvviso arresto del tempo sociale accelerato come un invito generale all’attesa, recuperando tuttavia soltanto in apparenza, la concezione agostiniana del tempo come distensio animi.

Perché questo invito non è servito a rallentare la propensione diffusa alla dispersione e all’accelerazione temporale, almeno per il momento; perché i rapporti materiali e di classe continuano ad incidere in maniera decisiva nell’organizzazione culturale dell’intera società. La configurazione complessiva della realtà pandemica resta dunque fondamentalmente monodimensionale(7), in quanto i più non riescono a tradurre (dunque ad immaginare) la pluralità del tempo interiore all’interno della eterogeneità del tempo sociale.

La realtà pandemica riporta in primo piano il bisogno di ucronie così come di utopie. Pensare altrimenti, immaginare altri mondi e altre vite(8), diventerà ben presto una questione di responsabilità collettiva, a condizione, tuttavia, che questo nuovo atteggiamento di fronte a se stessi e al mondo non diventi un pretesto per assecondare oscuri risentimenti sociali, oppure magari un piatto egualitarismo. In quest’ultimo caso le conseguenze sarebbero a dir poco disastrose. La realtà pandemica, attraverso la sua violenza temporale, sta dimostrando all’intera società, e soprattutto alla Politica, che occorre prendersi più tempo per progettare attivamente un nuovo principio di realtà democratico e complesso, ovvero «interdipendente»(9), in cui la democrazia così configurata possa ancora offrire una valida alternativa alla diade concettuale dicotomica autonomia/eteronomia, consentendo alle popolazioni mondiali di misurarsi attivamente con le sfide «entropiche» di ordine materiale, tecnico, ecologico ed economico(10).

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Note:

  1. Per un’ampia panoramica si veda G. Mari, Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, Il Mulino, Bologna 2019, in particolare il capitolo IV.
  2. Cfr. B.-C. Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, trad. it. di C.A. Bonaldi, Vita e Pensiero, Milano 2017.
  3. Cfr. M. Fisher, Realismo capitalista, trad. it. di V. Mattioli, Nero, Roma 2017.
  4. Ivi, p. 50.
  5. Cfr. G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Id., Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000.
  6. Cfr. su questo punto M. Ferraris, Emergenza, Einaudi, Torino 2016, p. 96.
  7. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1967.
  8. R. Bodei, Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Feltrinelli, Milano 2013.
  9. A. Caillé (et alii), Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza, postfazione di F. Fistetti, trad. it. di A. Zaccardi, Edizioni ETS, Pisa 2014.
  10. Ivi, p. 19.