La crisi politica in catalogna, giorno dopo giorno, si fa sempre più delicata. Da qualunque parte la si guardi (o la si sostenga), a sorprendere è la fragilità politica con la quale si sia arrivati sull’orlo del precipizio. Come un puzzle rompicapo dalla difficile risoluzione, così la battaglia frontale tra indipendentisti e unionisti è destinata a non assopirsi. Quando le ideologie antitetiche entrano in conflitto se non esiste un interesse reciproco nel cercare un accordo, il rischio che possano esplodere nuovi disordini è concreto. A chi giova tutto questo?
Dal punto di vista del consenso l’intransigenza del governo spagnolo ha dimostrato di non pagare. La ferocia degli scontri che ha accompagnato il contestato Referendum di domenica scorsa ha lasciato il segno, anche tra coloro che si erano dichiarati contrari alle urne. Per molti l’illegalità acclarata del voto sancita del resto dal Tribunale costituzionale spagnolo, non poteva giustificare le rappresaglie ai seggi guidate dalle forze di polizia in tenuta anti sommossa. Il pugno duro di Madrid ha stordito il popolo catalano ma ne ha rinvigorito l’orgoglio, preparandolo allo spettro dell’art.155 della Costituzione.
Il punto di non ritorno
Se la Catalogna non recepisse gli avvertimenti lanciati tra le righe sia dal premier rajoy che dal re Felipe VI, il governo centrale potrebbe attuare l’articolo speciale della Costituzione che consente di ridurre l’autorità delle comunità autonome.
Una misura drastica che permetterebbe allo Stato di cacciare i leader catalani (bollati di slealtà dal sovrano) sostituendoli con un governo provvisorio. Se ciò ancora non è avvenuto è perché l’art.155 andrebbe a sancire il fatidico punto di non ritorno. Dopo le manganellate di domenica della polizia se si mettesse in pausa anche la libertà democratica delle istituzioni catalane, allora sì che il tutto potrebbe sfociare in una rivolta popolare.
Per questo da Madrid si attende la prossima mossa degli scissionisti che, nella mattinata di lunedì, dovrebbero dar seguito al Referendum proclamando unilateralmente la Repubblica di Catalogna. È su questo sottile gioco di equilibri che il ribelle, Carles Puigdemont, ha impostato la sua manovra politica. Ieri sera, in conferenza stampa, il presidente ha attaccato la faziosità di Felipe VI: “Ha dimenticato il suo ruolo neutrale sostenendo il governo spagnolo e cancellando il sogno del popolo catalano”.
Lunedì giorno cruciale
Lo scaltro Puigdemont sa bene di avere ora il coltello dalla parte del manico e di poter far quindi leva sull’emotività dei catalani contro Madrid. Lo sciopero generale di martedì ha del resto riaffermato la volontà del popolo, chiamato a raccolta “pacificamente e contro ogni provocazione”. Puigdemont ha aperto a un nuovo processo di mediazione con il governo spagnolo che, da par sua, ha spento sul nascere le velleità del leader indipendentista. Il primo ministro Rajoy, anzi, ha alzato ancor di più l’asticella della tensione prefigurando un nuovo intervento in Catalogna “legale e proporzionato”. Nessun tentativo di mediazione potrà iniziare, è il diktat fatto filtrare dalla Moncloa, se prima Puigdemont non desisterà dai suoi propositi secessionisti.
Difficile dunque che si arrivi a un punto d’incontro prima della giornata fatidica di lunedì. In tal senso preoccupa e non poco lo spostamento di un intero contingente militare in Catalogna a sostegno della Guardia Civile spagnola. Una manovra di routine secondo il ministero della Difesa, un rafforzamento delle truppe in vista di nuovi scontri secondo gli indipendentisti. L’aria in Catalogna resta tesa, tesissima.