Che ci siano due vincitori è stranoto ormai, come ci sono due Papi. Noto come il fatto che non siano disposti a passarsi il testimone, né spirituale né soprattutto politico (e perfino Ratzinger negli ultimi tempi si sta riprendendo qualcosina...).
Di Maio ci prova
Di Maio certo sta alla guida di un Movimento di un “peso” pari al centrodestra coalizzato, ma maggiore e quasi doppio di quello leghista schiacciato per di più al Sud sotto quote impensabili fino a prima delle elezioni. D’altra parte "Giggino" esce forte da una velocissima sistemazione dell’affare delle presidenze delle Camere, su cui ha incassato anche il plauso del Presidente Mattarella e quello dei suoi, ovviamente, anche velocemente disposti a passare sopra la nomina della Casellati, che certo qualche orticaria l’ha prodotta e la produce nel mondo a 5 stelle.
E’ in ascesa Di Maio: si sente ormai punto di riferimento per tutto un sistema politico residuale che per metà si lecca le ferite e per metà ha le mani legate senza la sponda grillina. Una centralità che egli fa pesare, ma che sente anche di dover barattare, pena una lunga guerra di logoramento per il governo che vanifichi la battaglia lampo delle Camere. E quindi si sente investito di un ruolo inemendabile, quello di Presidente del Consiglio, seppure anche costretto a sistemare una maggioranza parlamentare rompicapo su cui la Lega ha posto già prelazione vista la reciproca attestazione di affidabilità che ha coinvolto nientemeno che Grillo in persona. Senza escludere del tutto che si potrebbero dischiudere d’improvviso le porte del centrosinistra, finora sbarrate a doppia leva, attestato su una posizione di “lassaire faire” e convinto di far cuocere i vincitori nel lento e bollente brodo della ingovernabilità.
Salvini resiste
Salvini ha perfino un problema supplementare rispetto al solipsismo cinquestelle: usare tutta la diplomazia possibile, lui che diplomatico non vuole apparire, prima di tutto all’interno della sua coalizione per mettere all’angolo un ex peso massimo riottoso, carismatico e per niente aduso a lasciare le luci del ring: nientemeno che il Cavaliere.
E deve usare tutto il tatto e la creanza necessari prima di tutto per una questione di deferenza verso Berlusconi e verso tutto il popolo di centrodestra che continua a considerare questi una sorta di garante di certi irrinunciabili àncore di moderazione alla ruvidità e sbrigatività salviniane. Ma anche per il pericolo di una qualche reazione di coda dell’ingombrante alleato, che come scorpione morente possa causare grossi problemi di ingovernabilità interna più che esterna.
E le recenti allusioni all’ "ircocervo”, fantastico quanto mostruosa creatura mitologica, con cui Berlusconi ha bollato un probabile asse stabile M5s-Lega la dice lunga sulla concretezza del pericolo.
Stretto tra le due sponde, interna ed esterna, Salvini in veste di Re nello scacchiere del centrodestra non può che far un passo a lato, un arrocco, dichiarando che: "A me interessa che l'Italia cambi: sono pronto a metterci la faccia ma non è che è 'O Salvini o morte', Salvini è a disposizione, ma se c'è una squadra possiamo ragionare con la squadra". E ancora: “Se mi rendessi conto che per aiutare questo Paese ci sono anche altre persone che possono dare una mano, per carità di Dio non sono io a dire di no", e difatto, con le dichiarazioni, aprendo un varco sia verso i suoi che verso i 5 Stelle.
In questo slancio di apertura ai 5 Stelle, Salvini è stato disposto nelle ultime ore perfino a ammiccare a uno dei feticci più odiati: il reddito di cittadinanza. Non c’è provvedimento più sgradito alle narici leghiste, e specialmente agli attivisti storici, di quello che sembra un sussidio “assistenzialista” e pesante sulle tasche delle aziende, tessuto economico importantissimo del nord industriale, che non ci vedrebbero alcun ritorno, se non addirittura un'inusitata forza “contrattuale” perfino dei disoccupati. E che quindi Salvini sta cercando di convertire acrobaticamente in un più appetibile “incentivo di occupazione”.
La via d'uscita?
Ma hanno entrambi una marcia in più dalla loro: quella di essere novità assolute nella veste di protagonisti, e quindi figure molto più digeribili e spendibili agli occhi della pubblica opinione. E se Salvini è disposto ad un passo a lato, ma solo se accompagnato da Di Maio nella rinuncia a favore di un candidato premier terzo e garante di entrambi, Di Maio si fa avanti senza concessioni a voler guidare in prima persona qualsiasi “esperimento” politico che coinvolga i cinque stelle.
Dopo le ultime dichiarazioni dei grandi duellanti è chiaro che Di Maio non vede affatto trattabile una sua leadership in un qualsiasi governo che veda la centralità dei 5S. Indisponibilità ad accettare dunque una soluzione pasticciata, di appoggio, di condivisione, di spartizione di ruoli e funzioni, alla luce del dorato isolamento pentastellato. Salvini, al contrario, deve fare i conti internamente ed esternamente e questo lo induce ad un possibilismo più alto.
Ma se tutto dovesse complicarsi e impantanarsi, di sicuro da queste prove avanzate di accordo M5s-Lega potrebbe nascere il nucleo di nuova legge elettorale che tolga d’impaccio i vincitori e regali agli italiani la possibilità di scegliersi da subito e da soli una maggioranza stabile e qualificata senza alchimie improbabili: Grillusconi, ircocervi o altri ibridi politico-mitologici, di certo molto poco utili alla realtà che esige soluzioni immediate.