Da anni i giornalisti turchi non godono di una libertà piena, la scure del regime di Erdogan infatti è sempre pronta a colpire chi si mostra non allineato. Quando, nei momenti di maggior tensione, l'informazione diventa cruciale, allora la maglie della tolleranza verso la stampa libera si restringono ulteriormente. Un po' di numeri possono dare la percezione della situazione.
Erdogan e il bavaglio all'informazione
Dal 9 ottobre, data di avvio dell'operazione Peace Spring (Fonte di Pace) contro l'amministrazione autonoma dei curdi nel nord della Siria, circa 500 persone sono state sottoposte a indagini e 121 sono state arrestate: tra queste i politici rivali, come i due segretari del partito Hdp (il partito che rappresenta i curdi in Turchia), e i giornalisti critici, come Hakan Demir, che racconta la sua esperienza al Fatto Quotidiano.
Si tratta di professionisti dell'informazione che si sono permessi di chiamare "guerra" l'invasione del Rojava da parte delle truppe armate agli ordini della Turchia. "Non è guerra" dice il Ministro dell'Interno turco Suylo, che parla di una doverosa eliminazione di terroristi. "Chi chiama questo intervento 'guerra' - ha dichiarato il Ministro - compie un atto di tradimento dello Stato". L'atmosfera intimidatoria risulta chiaramente da queste parole e a farne le spese sono quei giornalisti che rifiutano l'obbedienza al regime e che per questo vengono accusati di incitare all'odio e di farsi vettori di propaganda terroristica, come è successo a Fatih Gokhan Diler, perseguito dal regime per aver pubblicato le dichiarazioni di un esponente dello Ygp, la milizia curda, ossia una cronaca doverosa nel momento in cui è in atto un'operazione militare di invasione nei territori amministrati dai curdi.
Quando a comandare è Erdogan però non funziona così: il mondo dell'informazione deve obbedienza al Sultano, altrimenti il prezzo che paga è la libertà personale. Non a caso, dal tentativo di golpe del 2016 (in risposta al quale il Sultano ha impresso una svolta autoritaria allo Stato turco) si sono contati ben 319 arresti di giornalisti.
Erdogan mira a Kobane: la guerra dei simboli
Dopo l'accordo di Sochi, la presenza russa nella vicenda turco-siriana si fa sempre più insistente: oggi 300 agenti russi della polizia militare sono stati inviati in Siria, nella zona occupata dalle forze armate obbedienti a Erdogan. Intanto, nel pieno della seconda tregua, il leader turco intende dare scacco matto alle forze curde, prendendo la città di Kobane, divenuta simbolo della fiera resistenza del popolo curdo, che l'ha riconquistata palmo a palmo, sconfiggendo le forze del fondamentalismo islamico.
Erdogan ha dichiarato l'intenzione di far entrare le truppe in città. Stando alle parole del Presidente turco, gli americani starebbero cercando una mediazione per evitare l'ingresso delle forze armate turche nella città-simbolo dell'eroismo dei curdi, mentre la Russia premerebbe per tale scelta, che segnerebbe un punto di non ritorno e metterebbe in grave rischio anche l'attuale tregua. E' una vittoria simbolica, non solo militare, quella che Erdogan vuole ottenere attraverso la presa di Kobane. Intanto, il leader turco interpella direttamente il Presidente Trump con la richiesta di consegna di Mazloum Abdi, il Comandante delle Sdf (Syrian Democratic Forces), con il quale gli Stati Uniti hanno intrattenuto rapporti diplomatici, negoziando la tregua di 150 ore.
Abdi è ora in Siria, ma potrebbe restarvi ancora per poco, in quanto alcuni senatori USA hanno rivolto al Segretario di Stato Mike Pompeo la richiesta di concedere al Comandante curdo un visto che ne permetta l'ingresso negli USA al fine di riferire al Congresso sulle condizioni del suo popolo. La richiesta di Erdogan, che si fa forte degli accodi con gli USA per l'estradizione, mira a evitare che possano affermarsi testimonianze contraddittorie rispetto alla sua versione dell'operazione in Siria abbiano voce nelle sedi istituzionali dell'Occidente. Intanto, la NATO ha deciso di attivarsi in conformità alla proposta della Germania, inviando in Siria una missione internazionale, sotto la bandiera dell'ONU.