L'Agenzia delle Entrate potrà chiedere il risarcimento dei danni morali al contribuente debitore. Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n°38932 del 7 agosto 2017. E questo, fondamentalmente, perché l'Agenzia delle Entrate, soprattutto se si è costituita parte civile in un contenzioso per reato tributario, rappresenta degli interessi pubblici e sociali che vanno riaffermati oltre che tutelati. Inoltre, in questo modo si risarcisce la lesione apportata all'immagine dell'istituzione con la commissione dell'atto illecito.

Il fatto che ha portato alla pronuncia della Corte

Il fatto alla base della decisione della Corte si riferisce ad un procedimento penale nei confronti di un imprenditore immobiliare che aveva violato gli articoli 10 e 11 del Dls 74/2000 che puniscono l'occultamento o la distruzione delle scritture contabili (articolo 10) e la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11). L'imprenditore, infatti, essendo il rappresentante legale di una Srl avrebbe dovuto provvedere al versamento dell'Iva, cosa che ha omesso di fare. Inoltre, al fine di sottrarre il proprio patrimonio al pagamento delle imposte aveva costituito, come risulta dagli atti già a partire dal 2010, un fondo patrimoniale avente per oggetto un immobile, usato come civile abitazione, del valore commerciale di circa 750 mila euro.

Di conseguenza, l'immobile era nella piena disponibilità del contribuente che è stato per questo incriminato.

Le sentenze di primo grado e d'appello

In sede di primo grado, l'imprenditore era stato condannato in quanto il fatto di aver costituito un fondo patrimoniale era stato interpretato dal giudice come un mero espediente per proteggere più efficacemente il proprio patrimonio dall'aggressione del Fisco.

A nulla sono valse le argomentazioni della difesa che eccepiva che le disponibilità per l'acquisto dell'immobile erano derivate da donazioni del padre. Infatti, i documenti a disposizione dei giudici contraddicevano palesemente questa interpretazione, che è stata, quindi, giudicata inaccoglibile e inverosimile. L'imprenditore è stato quindi condannato al pagamento, nei confronti della parte civile, della somma di 1 milione e 200 mila euro.

Contro la sentenza di primo grado veniva proposto appello. Anche in appello veniva confermata l'interpretazione di primo grado ritenendo che la posizione della moglie, a cui era stato fittiziamente intestato l'immobile, fosse inconciliabile con l'impegno finanziario necessario per acquistare l'immobile. La moglie, infatti, era inquadrata nell'azienda come semplice impiegata. Di conseguenza, poteva acquistare il bene solo con le risorse del marito imprenditore.

Inoltre, si è ribadito , come da precedenti sentenze della stessa Cassazione, che l'inadempimento tributario può essere attribuito a forza maggiore solo se e quando derivi da fatti non imputabili al soggetto e a cui lo stesso non ha potuto porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà, che nel caso specifico non sono state ne' allegate ne' dimostrate.

Infine la tempistica di costituzione del fondo patrimoniale, esattamente coincidente con la scadenza del termine per il pagamento dell'Iva, bastava a dimostrare la natura fraudolenta dell'atto posto in essere dal ricorrente. E, quindi, di sottrarre il bene all'aggredibilita' da parte del Fisco. Di conseguenza, veniva confermato in toto il giudizio di primo grado, aggiungendo il risarcimento del danno morale.

La sentenza della Cassazione

La Cassazione ha specificato che il danno morale è un danno non patrimoniale di cui sono portatori anche gli enti pubblici nel momento in cui viene leso un interesse pubblico non economico. E tanto più nei confronti dell'Agenzia delle Entrate nella sua azione di riscossione delle imposte e tributi.

Nel caso specifico si tratta di un danno derivante dal discredito apportato all'immagine dell'istituzione in conseguenza della commissione del fatto penalmente rilevante. Di conseguenza, venivano confermati i precedenti giudizi.