Il 21 agosto 2019 la III Sezione Penale della Corte di Cassazione ha pubblicato la Sentenza n° 36278/2019 che, nel clima di crisi economica e politica che sta vivendo il nostro Paese, potrebbe portare molti imprenditori e datori di lavoro a non versare più i contributi previdenziali ai propri dipendenti e collaboratori. Infatti, il Supremo Collegio ha stabilito il principio secondo il quale l'imprenditore che non versa i contributi previdenziali non è condannabile in sede penale se dimostra che il mancato versamento è stato indotto dal fallimento dei suoi clienti principali o più importanti, soprattutto se questi ultimi sono in numero esiguo come accade per moltissime piccole e medie imprese italiane.

I fatti che hanno portato alla pronuncia della Corte

Il giudice di legittimità si è trovato di fronte al caso di un imprenditore che era stato condannato dal Tribunale di Ancona a 6 mesi di reclusione oltre a 500 euro di multa per il reato sanzionato dagli articoli 81 Codice Penale e 2 della Legge 11 novembre 1983 n°638. In pratica, l'imputato non aveva effettuato gli obbligatori versamenti dei contributi previdenziali a favore dei propri dipendenti per un totale di oltre 93mila euro nel corso di diversi mesi del 2012. La condanna era stata confermata anche in sede di Corte d'Appello.

L'imprenditore condannato aveva quindi proposto ricorso in Cassazione sostenendo che la causa dei mancati versamenti dei contributi previdenziali non andava attribuita ad una mera carenza di liquidità, bensì ad una gravissima crisi economica e finanziaria della sua azienda causata dal fallimento dei suoi clienti principali.

Nello specifico l'imputato era titolare di una ditta individuale che forniva servizi di telecomunicazioni e nel suo portafoglio clienti erano presenti due o tre grandi clienti. Il fallimento di questi ultimi ha portato la ditta dell'imputato a ricorrere, in prima battuta, ad una procedura di concordato preventivo avviata nel 2011 e, successivamente purtroppo, alla pronuncia di fallimento dichiarato dal Tribunale Fallimentare di Ancona il 27 giugno 2013.

Da parte sua l'imprenditore ha cercato in tutti i modi di risanare la situazione arrivando anche a perdere la casa di proprietà pur di onorare le proprie obbligazioni, anche perché non è stato possibile accedere neanche al credito bancario. Tutte queste circostante sono state ignorate dal tribunale di primo grado e dalla Corte d'Appello.

L'imprenditore non è riuscito nemmeno a pagare gli stipendi ai dipendenti.

La decisione della Corte di Cassazione

Il Supremo Collegio ha ritenuto fondato il ricorso dell'imprenditore. Il giudice di legittimità, in primo luogo, premette che il debito nei confronti dell'Inps è direttamente collegato al versamento degli stipendi ai dipendenti. E anche se l'orientamento generale della Corte di Cassazione in relazione al mancato versamento dei contributi previdenziali è che per dimostrarlo basta il cosiddetto dolo generico, cioè la semplice volontà e coscienza del soggetto di non effettuare i versamenti dovuti, è anche vero che l'imprenditore può salvarsi solo dimostrando che l'impossibilità dei versamenti è da attribuire a causa a lui non imputabile.

Inoltre deve essere fornita la prova che sia stato impossibile reperire le risorse necessarie al versamento dei contributi in altro modo.

Per la Suprema Corte il giudice d'appello non ha tenuto conto adeguatamente di questi principi fornendo alla sua sentenza di condanna una motivazione del tutto inadeguata e generica e, quindi, censurabile.Inoltre, sempre secondo la Cassazione, il giudice dell'appello non ha tenuto conto le numerose prove prodotte dalla difesa che delineavano un quadro psicologico della situazione dell'imputato che avrebbe potuto spiegare, almeno in parte, le sue azioni. La corte d'appello ha solo effettuato dei generici richiami alla giurisprudenza della Corte di Cassazione non fornendo una risposta specifica al caso. Per questi motivi il ricorso dell'imputato è stato accolto.