Prosegue il rigido inverno che ci ha traghettati all'anno nuovo: esaurite le castagnate e le feste accanto al caminetto, gennaio non perdona. Insegnanti e alunni lamentano il ritardo nell'accensione dei termosifoni. Dalle regioni baltiche, i venti freddi hanno portato la neve in pianura e sulle coste. Da ovest, arriva l'aria umida dell'Oceano Atlantico.

L'inverno è la stagione in cui, dall'alba dei tempi, la natura sembra morire. Chiede esorcismi di calore e bellezza. Forse per questo poeti e pittori si sono spesso occupati di esaltarne le bellezze: davanti al quadro stregato della neve, la paura delle intemperie può svanire.

A patto, ovviamente, di aver panni e fuoco. I versi che proponiamo sono pensati per la lettura in casa, fra plaid e cioccolata calda.

Il Medioevo e i "piaceri" dell'inverno

In assenza dei sistemi di riscaldamento odierni, gli uomini del Medioevo hanno conosciuto in pieno i rigori di gennaio. Però, accanto ai versi che celebrano il ritorno della primavera (come molti dei celeberrimi "Carmina Burana"), qualche poeta cortese si è divertito a versificare qualche piacere che la stagione pur regalava.

Stiamo parlando di Folgòre da San Gimignano (San Gimignano, 1265/75 - 1317/32). Fra le sue collane di sonetti, si ricordano i "Sonetti dei mesi". Essi augurano agli amici del poeta i piaceri di ciascuna stagione.

In particolare, per gennaio, sono previsti "corte con fuochi ed in salette accese,/camer'e letta d'ogni bello arnese,/lenzuol' di seta e copertoi di vaio..." (vv. 3-4).

Neve, Befana, agrifoglio

Ma l'immaginario poetico che i più anziani hanno imparato a memoria nelle scuole si nutre di altri elementi ricorrenti, soprattutto la neve.

Così Giovanni Boccaccio (Firenze, 1313 - Certaldo, 1375) descrive il tipico quadro invernale: "Vetro son fatti i fiumi, e i ruscelli/ gli serra di fuor ora la freddura;/vestiti son i monti e la pianura/di bianca neve e nudi gli arbuscelli..." (vv. 1-4). Ma non c'è gelo - informa più avanti il poeta - che salvi dal fuoco dell'amore.

La "Nevicata" di Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 1835 - Bologna, 1907) è invece una scena urbana dal sapore vagamente gotico: "Da la torre di piazza roche per l'aere le ore/gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dì./Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati; gli amici/spiriti reduci son, guardano e chiamano a me." (vv. 5-8).

Giovanni Pascoli (San Mauro, 1855 - Bologna, 1912) si dà a un dialogo con un arbusto che abbellisce ogni anno l'inverno, "L'agrifoglio": "Sul limitare, tra la casa e l'orto/dove son brulli gli alberi, te voglio,/che vi verdeggi dopo ch'io sia morto,/sempre, agrifoglio.//Lauro spinoso t'ha chiamato il volgo,/che sempre verde t'ammirò sul monte:/oh! cola il sangue se un tuo ramo avvolgo/alla mia fronte!"

Questa immagine quasi cristologica (la corona spinosa) colma nel desiderio che il legno della pianta serva a far cucchiai con cui le madri imboccheranno i bimbi.

La pianta dell'inverno, stagione della morte, è adatta a far nascere il pensiero dei cari defunti e di una famiglia che non c'è più.

Ugualmente domestica, ma più serena, è la filastrocca di Guido Gozzano (Torino, 1883 - 1916) sulla protagonista di gennaio: la Befana. "Discesi dal lettino/son là presso il camino,/grandi occhi estasiati,/i bimbi affaccendati//a metter la scarpetta/che invita la Vecchietta/a portar chicche e doni/per tutti i bimbi buoni. [...] Bambini! Gioia e vita/son la vision sentita/nel lor piccolo cuore/ignaro del dolore." (vv. 1-30).