Piero Armenti è uno degli urban explorer più famosi in Italia e anche a New York. Proprio nella città statunitense, lui, che è anche laureato in giurisprudenza ed è giornalista professionista, ha costruito la propria fortuna. Arrivato con una valigia piena di speranze, oggi vanta un'agenzia con sede a Times Square e un canale Instagram molto seguito anche da giovanissimi. Quello che l’ha sempre contraddistinto è stata la sua mentalità, orientata a fare sempre meglio, sempre di più. E ora, come lui stesso ha dichiarato, si gode il meritato successo.

In occasione di questa intervista che ha concesso in esclusiva a BlastingNews, Piero ha avuto modo anche di parlare del suo ultimo romanzo, pubblicato per Mondadori, dal titolo ‘Una notte ho sognato New York’. È una vera e propria dichiarazione d’amore per una città un po' folle, che permette a tutti di essere semplicemente sé stessi, senza alcun limite o condizionamento.

Piero Armenti: ‘New York mi ha cambiato, mi ha fatto realizzare un sogno’

Piero, ormai sei uno degli urban explorer più famosi su Instagram. Potremmo definirti un vero e proprio influencer. Se guardi al passato, a quel Piero, giovane, che andava all’università, cosa ti viene in mente? Avresti mai pensato di arrivare al punto a cui sei oggi, ad avere questo grande successo mentre studiavi i grossi manuali di diritto?

‘Ho studiato Giurisprudenza perché ero un ragazzino, e tutti mi ripetevano che questa facoltà ti avrebbe dato più occasioni di lavoro, perché poi prima o poi vinci un concorso e ti sistemi. Sono nato dentro questo tipo di mentalità che ho sempre considerato mediocre e inadatta a ciò che sono io, una persona incline più al viaggio che a metter radici.

In parte capivo il ragionamento, l’impiego statale era stato uno strumento di grande emancipazione per l’Italia rurale. Il contadino vedeva il figlio lavorare in ufficio, senza spaccarsi la schiena come lui, ed era felice. Immaginavamo questa burocrazia infinita capace di assorbire tutta la forza lavoro, ma poi qualcosa si è inceppato.

Questo sogno statalista, del posto fisso per tutti, è semplicemente scomparso a causa di un debito pubblico che ha costretto lo Stato a stringere la cinghia. Per quanto possa sembrare paradossale credo sia più facile adesso diventare un imprenditore di successo a New York che fare il professore universitario, almeno per quelli della mia generazione. A quel punto, scomparso il sogno statalista, meglio seguire le proprie passioni, che accontentarsi di fare una vita qualunque alla ricerca di un lavoro che neanche amiamo. La vita è una'.

Quando hai maturato l’idea che fare il giudice o l’avvocato non facesse per te? Quando hai capito che il tuo lavoro doveva essere un altro?

‘Ho fatto la pratica forense per sei mesi, nello studio dell’avvocato penalista salernitano Paolo Carbone, dove ha fatto pratica anche lo scrittore Diego de Silva.

Ma tutto quel tripudio di burocrazia, gli ambienti tetri del tribunale, il linguaggio cacofonico del leguleio, tutto ciò mi stava trasformando in un ennesimo uomo grigio dalla vita anonima, mi immaginavo invecchiato, seduto al tavolo di un ristorante con una moglie a mangiare in silenzio. E provavo orrore. Quindi me ne sono scappato in Venezuela tra donne bellissime e palme di cocco a perseguire la mia carriera di scrittore e giornalista. Quel viaggio in Venezuela è iniziato nel 2004 e, dopo 16 anni, se mi guardo allo specchio, vedo un uomo che si è realizzato. Voglio fare i complimenti al ragazzino di allora che mollò tutto per andarsene all’avventura. Perché mi son accadute cose fantastiche, come quando nel 2005 mi chiamò Panorama per scrivere degli articoli dall’America Latina.

Per me fu una grande soddisfazione’.

Quando sei arrivato a New York? Già avevi pensato al fatto che potevi dare vita ad un’attività di questo genere, o partivi così, come possiamo dire, un po’ all’arrembaggio?

‘Chi viene a New York è una persona inquieta, disperata, alla ricerca di qualcosa. Le idee si chiariscono con il tempo, non bisogna aver fretta. Vengo da una famiglia di due impiegati pubblici, con tre figli e un mutuo. Non avevo nel DNA l’imprenditoria. Sono cresciuto con il valore del risparmio, delle scelte oculate, degli acquisti durante i saldi, della pizza e la birra. New York mi ha cambiato: mi ha insegnato a investire, a sperperare, ad arricchirmi, a fare cose folli, come acquistare una rara prima edizione di “Chiedi alla Polvere” di John Fante, con dedica dell’autore.

New York mi ha dato la possibilità di vivere un sogno alla Grande Gatsby dove mi affaccio dal balcone, osservo le mille luci di Manhattan, sorseggio champagne e mi dico: “Ce l’hai fatta”. Ora goditela.’

Appena sei arrivato a New York hai mai avuto l’idea di voler abbandonare tutto e lasciare? Come è stato all’inizio a non avere solide amicizie nella città Americana?

‘Non ho mai pensato di lasciare New York, perché la amo troppo. È una città in cui non si invecchia mai, in cui vivere una vita piena. Son quasi dieci anni che son qui. Ma se dovessi andar via dagli Stati Uniti, sicuramente andrei a Parigi. Per una ragione semplice: non parlo francese. Allora sarebbe come ricominciare la vita di nuovo, con una lingua nuova.

Pronunciare le prime parole, dialogare senza esser capiti. Quando si va in una città senza conoscere la lingua, si nasce di nuovo, si diventa bambini. È una sensazione bellissima di nuova origine.’

Perché hai scelto proprio la Grande Mela? Quali credi che siano le qualità che rendono New York una città migliore, per il tuo lavoro ovviamente, rispetto ad un’altra città Americana?

‘Non esiste nessun’altra città americana che rende sublime il mito americano. Solo New York e Los Angeles. San Francisco, Miami e Chicago sono un gradino sotto. New York è una città italiana, europea, cosmopolita, avvincente. E poi ha una caratteristica unica, appena arrivi ti senti a casa, non straniero. Sarà per tutti i film che abbiamo visto, ma in questo folle laboratorio di vite umane hai la sensazione che ci sia posto anche per te.

Dal primo giorno mi son detto wow, qua è estate e la gente non è abbronzata, sono libero di esser bianco d’estate. Non è una libertà da poco.’

Piero è uno degli urban explorer italiani più famosi sui social

Ormai grazie ai social e al tuo continuo aggiornare, quotidianamente, chi ti segue, sappiamo un po’ tutto di te. Possiamo dire che è anche grazie ai social che sei quello che sei diventato. Credi che se non ci fossero stati i social, avresti avuto lo stesso successo? Se si, Sarebbe stato diverso? E in cosa?

‘Devo molto ai social, perché hanno democratizzato la comunicazione. Prima era diverso, per avere visibilità dovevi andare in Tv, in radio o in un giornale. Ma c’era sempre qualcuno con cui dovevi interfacciarti, e che decideva del tuo destino.

I social no, sono inumani e questa è una cosa meravigliosa: decide un algoritmo, se sei bravo emergi, senza leccare le natiche a nessuno. Sui social non esistono raccomandazioni: il talento, l’intraprendenza e la creatività sono l’unica cosa che conta. Quindi senza social io forse non esisterei. Ma la storia delle comunicazioni è innovazione continua da sempre. Senza la Tv commerciale tutti i miei miti degli anni ’80 e ’90 non sarebbero mai esistiti.’

Quale credi che sia il punto di forza che ha permesso alla tua agenzia, che ha sede a Times Square, posto di certo non per tutti, di diventare una delle maggiori leader in quel settore?

‘In genere il turismo è sempre stato visto come un settore poco cool, di marchi dai nomi brutti, fatto di volti anonimi.

Io ho costruito un marchio forte, che esprime uno stile di vita libertario e ottimista. Chi viene in agenzia, accede al quel mondo di ottimismo e bellezza che è un po’ la mia filosofia di vita. Poi abbiamo prezzi imbattibili, un customer service in italiano, tour stupendi, e in fondo ti fidi di noi perché io ci metto la faccio, e non voglio fare figuracce.’

Piero su New York: ‘È una città difficile, ma quando la domini ti senti realizzato, come se fossi in paradiso’

Ultimamente è stato pubblicato, per Mondadori Editore, il tuo romanzo ‘Una notte ho sognato New York?'. Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro? C’è raccontata parte della tua vita e della tua esperienza?

‘Volevo raccontare New York, che è la protagonista di questo romanzo, insieme a tutti i suoi personaggi: la modella che soffre per amore, il milionario, la donna tradita, e ragazzo che prova a capire da New York cosa vuole dalla vita.

Non è un’autobiografia, ma tutti pensano che lo sia e non posso farci niente. In realtà mi rivedo in tanti personaggi del romanzo.’

Nel libro è molto chiaro il tuo ‘amore’ per la città in cui vivi; addirittura, dici, che quando un fidanzato abbraccia la ragazza pensa a New York, è una forte ‘dichiarazione d’amore’. Cosa ti ha fatto ‘innamorare’ di Grande Mela, al di là degli aspetti puramente professionali?

L’amore monogamico dei venti anni all’inizio è magico, poi diventa noioso. E non dite che non è così, perché so che è così. Quindi è normale sognare un mondo lontano in cui ricominciare daccapo, avere un’occasione di vita, innamorarsi di donne diversa. La mia dichiarazione d’amore è verso una città folle che ti permette di esprimere te stesso, senza giudicarti.

New York è durissima: devi esser sempre competitivo, a volte ti consuma. Ma quando la domini, sei nel paradiso realizzato.’

Forte delle tue parole per New York, è ipotizzabile un tuo ritorno stabile in Italia, nella tua Salerno, o credi che ormai è l’America la tua casa?

‘Un ritorno a Salerno lo escludo perché non avrebbe senso. Io non sono un nostalgico, amo la metropoli, e amo anche quel senso di anonimato che ti dà la città. Ma non so se rimarrò in America. La vita ti sorprende sempre, e io lascio che lo faccia.’

Cosa ti aspetti nel futuro? Farai primeggiare sempre il lavoro o l’amore?

‘Non mi faccio troppe domande sull’amore, è un argomento su cui rifletto poco. Non credo neanche che la vita sia lavoro, lavoro e ancora lavoro, mi piace godermela. Spero di avere gli occhi ingenui e ricchi di entusiasmo di chi ha ancora tanta voglia di fare, perché il futuro è un luogo meraviglioso.’