Maria Serena Alborghetti, antropologa, scrittrice, osservatrice in missioni umanitarie di Onu e Ue, ha tradotto in narrazione tutto quanto gli occhi hanno visto in anni di viaggi, soprattutto nel continente africano, eletto come sua seconda "casa", dopo aver attraversato il deserto del Sahara in macchina per 25 volte.

Il suo ultimo lavoro è il romanzo "Riflessi in uno specchio, voci di donne da un paese in guerra" (Edizioni Il Poligrafo) che descrive ideali, sentimenti, emozioni e passioni, di quattro donne le cui vite sono accomunate da un brillante "fil rouge", il possesso di uno specchio che si sposta insieme alle protagoniste superando sorprendenti vicissitudini dovute ai conflitti, all'oppressione, alla violenza.

Il registro del libro è poliedrico e sovrappone gli angoli visuali, la politica internazionale in Africa successiva al colonialismo, i diritti umani, la democrazia e la cultura insieme alla vita di tutti i giorni dimostrando, in fondo, che il lato oscuro del potere erode la normalità dell'esistenza alla quale le quattro donne aspirano con tutta la loro forza.

Un romanzo che non vuole essere un saggio

La forma prescelta del racconto romanzato consente la valvola di sfogo della finzione anche se i fatti descritti sono in gran parte veritieri. Inoltre permette alla lettura la pista di accelerazione di una maggior leggerezza e dello slancio sognante nel lirismo dello specchio. Questa possibilità narrativa nulla toglie alla crudezza ed efferatezza di alcune immagini e alla scossa realistica dell'interrogativo sull'umanità.

L'intelaiatura del romanzo poggia su alcuni pilastri, grumi di senso che sprigionano altre riflessioni, invocazioni e asserzioni che il libro contiene, come "Non darmi Signore tutto ciò che l'uomo può sopportare" oppure "l'amore è un'erba che cresce ovunque, anche sulle macerie".

Fra istinto di sopraffazione e tensione vitale "Riflessi in uno specchio" di Maria Serena Alborghetti è un sorprendente tragitto dell'esistenza che include il quesito un po' sarcastico sull'ipotesi che sia "da sfiduciare la razza umana" per la sua incapacità di attuare nel mondo una giustizia distributiva di diritti ed opportunità.

Resta lo stordimento psichedelico delle danze africane, perfino in un campo profughi, e la banalità di una "pastasciutta" al riparo in una casa mentre fuori si spara. Resta, soprattutto, il quesito centrale sul perché l'Africa non decolli, sul valore della speranza e di quanto, anche se a brandelli, può rappresentare "humanitas".