I nostri figli avrebbero potuto essere qualcosa di più che dei profughi. Potevano diventare dottori o ingegneri. Invece sono compressi in questo tragico presente senza nessuna prospettiva futura”. Gli occhi profondi di Ali lasciano trasparire tutta la tristezza racchiusa nel suo cuore mentre parla dei suoi nove figli e rivive quei terribili giorni in cui fu costretto, insieme a loro, a lasciare la sua amata terra, la Siria. “Le bombe cadevano vicinissime alle nostre case. Inizialmente ci siamo spostati all’interno della nostra città, Aleppo, cambiando spesso quartiere, poi ci siamo rifugiati in campagna, ma nel giro di un mese tutto ha cominciato a costare sempre più caro: l’olio, il pane, e le nostre vite erano sempre più difficili”.

Ali sale così su di un pulmino insieme alla sua famiglia per lasciare la Siria. Sono in otto, ma gli permettono di occupare solo due sedili perché il mezzo è stracolmo di persone. In Libano, la terra dove hanno scelto di rifugiarsi in attesa che la guerra finisca, nascerà la loro ultima bambina che oggi ha due anni. Dormono in un campo “informale”, così li chiamano perché lo stato non li riconosce ufficialmente, in una zona a nord del Libano, Tel Abbas. Accanto alla tenda di Ali, quelle di un’altra quindicina di famiglie che con lui hanno condiviso lo stesso tragico destino. In questo piccolo pezzo di terra talvolta si riuniscono, condividono insieme i pasti o il tè, i ragazzi organizzano partite di calcio, i bambini si ritrovano in una piccola casetta di legno adibita a scuola dove studiano l’inglese e il francese.

Il campo profughi è una città nella città

Tutto il Libano, da nord a sud e fino alle montagne della Bekaa ad ovest, è disseminato di questi gruppi di tende che sono diventate col tempo piccole città autogestite dove ognuno si organizza come può. In ogni campo esiste lo shawish, un siriano che per scelta diventa una sorta di leader del campo stesso.

Fa da mediatore fra i rifugiati e il mondo esterno, si preoccupa che tutti gli aiuti umanitari arrivino alle famiglie, ascolta i problemi che quotidianamente ciascuno deve affrontare. Ali è lo shawish del suo campo anche se lui non ama definirsi tale. E’ un uomo buono, generoso, è capace di mediare tra le situazioni di tensione che si creano, ma non è dappertutto così.

In molti casi lo shawish si è imposto sugli altri, chiede favori sessuali o soldi ai siriani che sono costretti a rivolgersi a lui, cerca di arricchirsi e crea ulteriori tensioni. Micro dinamiche di sfruttamento che creano un dramma nel dramma.

Il dramma dello sfruttamento dei siriani in Libano

I siriani in Libano sono affidati al caso o alla bontà delle persone che incontrano. Non possono lavorare legalmente nel paese non avendo un permesso di soggiorno, ma la paura di essere arrestati dall’esercito e rispediti in Siria si scontra quotidianamente con la necessità di dover lavorare, così, quasi tutti, finiscono nella spirale del lavoro nero. Accettano di trascorrere intere giornate a raccogliere verdura o olive a meno di un euro l’ora, oppure, scelgono la strada che porta a Beirut per andare a lavorare negli altissimi palazzi in costruzione.

Sfidano la sorte ai check-point posizionati lungo la strada, dove i soldati dell’esercito libanese non di rado li bloccano e li arrestano, per andare a guadagnare solo qualche soldo in più. E’ dal quarto piano di uno di quei palazzi che Amir è caduto due anni fa. Non aveva contratto né alcun tipo di copertura assicurativa. Ha riportato contusioni e fratture su tutta la parte destra del corpo, dal bacino, al braccio, fino al volto. In ospedale gli hanno salvato la vita, ma Amir avrebbe bisogno di operazioni costose. Ha cinque figli e nelle sue condizioni non può lavorare. Una storia simile a quella di molte altre persone. Dalla guerra sono riusciti a fuggire, ma il dramma, dal quel giorno in cui hanno dovuto abbandonare le loro case perché una bomba era caduta troppo vicina alla loro, non li ha mai abbandonati.