La decisione è stata presa mercoledì 29 marzo all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale guidato dal presidente Erdogan. La motivazione ufficiale sulla fine delle operazioni militari nel nord della Siria è riferita al successo della campagna “Scudo dell’Eufrate”, avviata nell’agosto del 2016, con lo scopo ufficiale di combattere l’Isis e con quello meno formale di intaccare la presenza delle forze militari kurde YPG, contro cui fin dall’inizio ha cannoneggiato le postazioni militari. Nella giornata di giovedì 30 marzo il Segretario di Stato americano Rex Tillerson è atteso ad Ankara per un chiarimento.
Una campagna militare mai chiarita
Non sono chiare le reali motivazioni che hanno spinto il presidente sultano turco Erdogan a concludere improvvisamente la campagna lanciata sei mesi fa nel nord della Siria, anche perché l’obiettivo reale di intervenire nella guerra era concentrato sul suo conflitto personale nei riguardi del popolo kurdo, il quale rivendica storicamente l’autonomia regionale nella parte sud della Turchia. Autonomia che nei fatti i kurdi hanno guadagnato proprio in quella striscia di terra da est a ovest del nord della Siria chiamata Rojava, dopo aver combattuto e vinto sul campo i miliziani dell’Isis.
Insieme ai ribelli anti-Assad
L’azione militare della Turchia contro il sedicente Stato islamico, è stata coadiuvata dai cosiddetti ribelli, al regime di Assad, come l’Esercito Siriano Libero, contribuendo a togliere dalle mani dei jihadisti le città di Jarabulus, Al-Rai, dābiq, Al-Bab.
In quest’ultima si creò la paradossale situazione che vedeva le forze filo-turche a nord della città e quelle del regime di Assad a sud, con la Russia, che aveva dispiegato la sua aviazione, tesa a fare da mediatore per non farli incontrare, poiché nemici.
La storica avversione contro il popolo kurdo
Sull’altro fronte, quello contro i kurdi, si parte dal presupposto che Erdogan ha sempre considerato le YPG come dei terroristi, vicini al PKK, il partito kurdo dei lavoratori, quello di Abdullah Öcalan.
Però le operazioni militari da loro condotte sul territorio sono state le più efficaci nel contesto del quadro bellico contro i jihadisti, per questa ragione diventati alleati degli Stati Uniti. Dal primo momento dell’ingresso in guerra la Turchia ha sempre sollecitato la Casa Bianca ad emarginare le forze militari kurde, senza successo.
Anzi, proprio con la nuova offensiva su Raqqa il sostegno statunitense alle YPG, all’interno della coalizione kurdo-araba delle Forze Democratiche Siriane, si è strutturato sia dal punto di vista logistico che militare, cosa mal digerita dalla Turchia. Come anche l’impedimento da parte della Russia, anch’essa vicina alle istanze kurde, nei riguardi dell’esercito del sultano di prendere a est la città di Manji e a ovest la città di Afrin, ambedue controllate dai kurdi.
Quale la reale volontà della Turchia?
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, quindi, la campagna Scudo dell’Eufrate non sembra aver sortito l’effetto sperato dalla Turchia, ecco che più realisticamente le motivazioni del ritiro dalla Siria, se viste in questa direzione, sono più chiare.
Infine c’è l’incognita delle parole espresse dal primo ministro turco, e cioè che non si escludono interventi futuri nel nord della Siria: è il preannuncio di una nuova offensiva contro i kurdi questa volta formalizzata?