La gioia per la rete segnata, il fervore dell'esultanza, l'abbraccio dei compagni, il coreografico festeggiamento prima di tornare all'agonismo della partita: chi pratica o segue il calcio, con amore e passione, conosce bene tutto queste ricorrenze e il potere catartico che il momento del gol porta con sè, permettendo la comunanza di spirito tra giocatore e tifosi. Tuttavia, lo sport talvolta può diventare veicolo di messaggi lesivi della dignità dell'essere umano. Gli stadi italiani non sono nuovi ad avvenimenti del genere e tra gli spalti le tifoserie si sono spesso rese protagoniste di episodi di razzismo, o di simpatie ideologiche esplicitate in maniera definita da alcuni grottesca (si pensi al recente caso delle figurine di Anna Frank con la maglia della Roma).

Se spesso si può affermare che iniziative di questo tipo sono ad appannaggio di una minoranza incivile di tifosi, i quali non possono e non devono essere assolutamente presi come paradigma della ben più numerosa fetta di appassionati che vivono la loro fede calcistica in maniera sana e civile, fa ancora più rumore quando a rendersi protagonista di fatti del genere è direttamente uno sportivo.

Marzabotto 1944-2017: la memoria ferita

È quanto successo il 12 novembre 2017 durante la partita tra Marzabotto e Futa 65, valida per il campionato di seconda categoria e giocata proprio nella città emiliana, scenario di una delle maggiori stragi compiute dalle truppe naziste durante le fasi finali della seconda guerra mondiale.

Questo l'avvenimento: un giocatore della squadra ospite va in gol ed esulta togliendosi la maglia e mostrando una t-shirt avente stampato addosso lo stemma della repubblica di Salò, accompagnando il tutto con una mano destra alzata al cielo in direzione degli spalti, richiamando in maniera nemmeno troppo velata il saluto romano.

Un gesto apparso al pubblico come premeditato, lucido, una scelta ben precisa che ha generato una ovvia serie di durissime reazioni e la sospensione del giocatore da parte della società sportiva. Le scuse del giocatore? Puntuali, circostanziali e accompagnate da una serie di discutibili giustificazioni, ma inutili a fronte di un gesto che non è archiviabile come il semplice colpo di testa di un ragazzo legato a degli ideali per i quali non c'è posto in un campo da calcio e più in generale in una società che poggia le sue fondamenta sul rifiuto della violenza perpetrata dal fascismo.

Il gesto di Eugenio Maria Luppi, il calciatore del Futa 65 responsabile di questo gesto, è un'offesa alla memoria storica di un paese che ha visto morire 770 dei suoi abitanti, vittime di una rappresaglia terribile voluta dai nazisti e insabbiato in un primo momento dalle autorità della repubblica di Salò. "Questa è memoria di sangue, di fuoco, di martirio, del più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di von Kesselring, e dai loro soldati di ventura, dell’ultima servitù di Salò, per ritorcere azioni di guerra partigiana." Questa la frase di Salvatore Quasimodo incisa sul faro monumentale che sorge sulla collina di Miana, immediatamente sopra Marzabotto: una memoria che non solo va rispettata in segno di tacita vicinanza agli abitanti del paese colpito, ma che va prima di tutto recepita e che si deve fare consapevole presente al fine di non permettere un nuovo insorgere di ideali simili.

Gesti simili non vanno infatti semplicemente stigmatizzati, ma compresi, perchè la costruzione di una memoria condivisa, e quindi di una conseguente etica che rifiuti sia al livello politico quanto a quello del singolo il ripetersi di accadimenti di questo tipo, passa necessariamente attraverso il riconoscimento dei meccanismi sociali che portano alla genesi dell'ideologia stessa. In altri termini bisogna interrogarsi sul come sia possibile che un giovane italiano trovi possibile identificarsi in dei valori passati alla storia come negativi (al punto da far sì che l'apologia degli stessi costituisca reato), al punto da esternarli proprio in un luogo che da quegli ideali è stato indelebilmente segnato.

L'interpretazione crociana del fascismo

Nel novembre del 1943 il filosofo italiano Benedetto Croce scrisse per il “New York Times” un articolo dal titolo “Il fascismo come pericolo mondiale”, analizzando in maniera attenta e brillante le cause che avevano portato all'affermarsi del fascismo, come fenomeno socio-politico che pur avendo trovato terreno fertile soprattutto in Italia e in Germania, fu figlio di una crisi morale dell'intera Europa. Secondo Croce il fascismo non sarebbe potuto che nascere proprio nel tempo in cui è nato, conseguentemente alla crisi della piccola borghesia disabituata al lavoro a causa della prima guerra mondiale e al fiorire dei culti superomistici che presero piede a partire dalla seconda metà dell'Ottocento.

Il fascismo si configurava dunque come un'ideologia amorfa, come ben messo in luce dal filosofo italiano («... E da allora in poi, a volta a volta, inclinò verso tutte le idee e tutte le tendenze, ultraconservatrici e bolsceviche, capitalistiche e comunistiche, plutocratiche e proletarie, cattoliche e schernitrici della religione, europee e antieuropee, filosemitiche e antisemitiche, tedescofobe e di fratellanza italo-germanica, e via discorrendo, verso tutte indifferentemente appigliandosi ora all'una ora all'altra con l'unico fine di guadagnare la propria giornata, cercando il plauso ora da una parte ora dall'altra e ingannando e corrompendo tutte le parti e così mantenersi al potere ...»), e la figura del Duce, del condottiero che incarnava la figura del superuomo Dannunziano, oscillava a seconda dalle esigenze da conquistatore spietato a guida morale a cui appigliarsi, sempre in nome del popolo italiano.

Il fascismo dunque è per Croce una malattia morale la cui diffusione futura va prevenuta e non ripetuta: la chiusa del suo articolo è infatti un monito affinchè l'Italia si erga a guida per gli altri paesi, avendo sperimentato l'impatto devastante del fascismo in prima persona.

Se dunque il secondo dopoguerra è leggibile come una reazione al fascismo stesso, con una società italiana repubblicana che, almeno negli ideali e nelle fondamenta politiche, aborrisce qualsiasi ritorno al passato, oggi è possibile affermare che la parentesi fascista non è chiusa, o quantomeno essa tende periodicamente a riaprirsi. Nell'esultanza di Eugenio Maria Luppi, così come in altri episodi di questo tipo, c'è qualcosa di contemporaneamente anacronistico ma anche attuale.

Da un certo punto di vista viene infatti difficile concepire il fascismo come compatibile con la società post-contemporanea, figlia del liberalismo più sfrenato e promotrice della più totale autoaffermazione personale; d'altro canto anche la nostra contemporaneità è segnata da una crisi morale, dei valori e cosa ancora meno trascurabile, della fiducia verso le istituzioni politiche nate proprio al termine del secondo conflitto mondiale. Non è un caso infatti l'affermazione delle estreme destre e il rifiorire dei nazionalismi in diversi paesi europei, sulla base di un ritorno ad un glorioso passato foriero dei veri valori non ritrovabili nel presente.

Un acritico ritorno al passato: Nietzsche e la storia monumentale

Come il regime fascista in Italia costruì la propria identità sulla riattualizzazione decontestualizzata del sistema di valori dell'impero romano, così oggi la figura del Duce viene vista come simbolo di un ritorno all'ordine, depurando il fascismo stesso dai suoi risvolti negativi, e minimizzandone gli aspetti contraddittori. Non solo l'apologia fascista è un reato, ma finisce per essere un'operazione nostalgica priva di criticismo storico, guidata dalla pancia più che dalla testa; una mitizzazione del passato che non tiene conto dei criteri di attuazione dello stesso, come se fosse possibile riportare in auge un sistema di valori in un'epoca diversa da quella nella quale esso era precedentemente sorto.

Questo atteggiamento nei confronti della storia era già stato teorizzato dal celebre filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nella sua opera “Considerazioni inattuali” sotto il nome di “Storia monumentale”. Secondo il filosofo tedesco questo tipo di storiografia si rifà infatti all'atteggiamento di chi vede in un momento storico passato un monumento, inteso come segno di una grandezza raggiunta, perduta, e non ritrovabile nel presente. I perpetratori di quest'idea di storia mirano dunque ad abbellire alcuni lati del passato, ignorandone contemporaneamente altri, per convenienza o ignoranza, al fine di suffragare l'idea di un'era passata contrassegnata da una grandezza distante dal presente. Nietzsche evidenzia i suddetti limiti definendo la storia monumentale come un atteggiamento errato e insufficiente a capire il reale sviluppo storico nella realtà, donando allo stesso tempo alla contemporaneità uno strumento critico idoneo a valutare non solo l'indelicatezza di certi gesti, ma anche la loro inconsistenza ideologica e strutturale.

Rimane dunque l'amarezza per un gesto che si commenta da sè, e la speranza che la memoria possa davvero farsi storia, tramite una comprensione critica e responsabile dei contesti e degli avvenimenti; un rapporto critico col passato piuttosto che un nostalgico tentativo di fare tornare ciò che è stato e, indifferentemente dal colore politico, non può ripetersi uguale a se stesso ignorando il presente e le sue dinamiche.