Se fossimo in un romanzo giallo, sarebbe un capolavoro di Agatha Christie, un trionfo di ombre che passano senza lasciare traccia, che coprono e nascondono, che occultano e sbucano quando meno te la aspetti. Accade come con le nuvole: alle volte intercettano il sole coprendolo momentaneamente, altre lo nascondono del tutto, e allora l’ombra diventa tenebra e la sensazione che ne deriva è una grande paura.
Che esistesse un collegamento tra tecnologia e psicologia del consumatore lo si sapeva da tempo; che dietro le elezioni americane si celasse l’ombra di una società che studia i tratti psicologici degli utenti Facebook al fine di cucire su misura una propaganda governativa differente a seconda dell’osservatore, decisamente meno.
Nel puzzle sconfinato dei rapporti tra multinazionali, social network e potere, lo Spionaggio di Trump volto a configurare i profili dei suoi futuri elettori costituiva un tassello mancante sino alle inchieste giornalistiche svolte dal giornale britannico Observer e dal New York Times.
Dalle indagini è emersa l’attività illecita della Cambridge Analytica che, in vista delle elezioni presidenziali del 2016, ha raccolto i dati personali di oltre 50 milioni di cittadini ricavandoli dal database di Facebook al fine di delineare i tratti psicologici di ognuno di loro e studiare successivamente una propaganda plasmata ad hoc a seconda del profilo che emergeva: a tipi riflessivi, introspettivi, irruenti, irrazionali era associato uno spot pubblicitario che cavalcava l’onda delle medesime emozioni, tentando in questo modo di incanalare inconsciamente il consenso.
Lo spionaggio seriale attuato dai vertici dello stato ha colpito milioni di utenti Facebook che vedevano sfilare quotidianamente sotto i propri occhi ignari, i messaggi politici veicolati dai Repubblicani, mentre un’eco familiare risuonava candido nelle orecchie di ognuno riflettendo pulsioni e tendenze attitudinarie estratte dai dati personali, dall’attività sui social network, dagli stati condivisi, dai luoghi di frequentazione.
Il ponte di raccordo tra il social di Zuckerberg e la Cambridge Analytica è stata l’applicazione ‘thisisyourdigitallife’ prodotta dal ricercatore di Cambridge Alexandr Kogan, resosi subito disponibile a parlare all’FBI e dinanzi al Congresso, come affermato ai microfoni della CNN. L’app, scaricata da circa 270 mila persone, permetteva l’accesso mediante l’inserimento delle credenziali Facebook e, in base agli accordi del tempo, consentiva ai terzi di accedere alle informazioni dei contatti diretti.
Incrociando i dati, le posizioni, gli interessi, gli aggiornamenti di stato, si è giunti al controllo di milioni di utenti rastrellando di volta in volta un numero cospicuo di informazioni.
La violazione dei termini d’uso costituisce tuttavia il fulcro attorno al quale ruota uno degli scandali destinati a ritratteggiare i contorni della storia, un caso che getta una nuvola di fumo addosso al governo e alla sicurezza generale, una nuvola che rischia di trasformarsi in buio, in quelle tenebre che mettono così tanta paura. Difatti, lo scopo che muoveva le azioni della Cambridge Analytica era la profilazione dell’elettorato attivo e a tal fine è stato raggiunto l’accordo tra Robert Miles, miliardario e proprietario della suddetta, e Alexandr Kogan che ha consentito l’accesso all’imponente archivio dati; si riscontra in tal modo la grave infrazione che mette a repentaglio la sicurezza e la privacy degli utenti, dando origine a una spirale retroattiva che consente analisi inquietanti del successivo biennio governativo targato Trump, oltre al sopraggiungere di fisime sulla psicologia dei social, un boomerang in grado di affossare il lanciatore che si ponga alcune domande.
Ci sarebbe un equilibrio politico-sociale differente senza un filtro manipolatore? Nel caso specifico il Big Brother che dall’alto controlla le vite dei cittadini, non è un fantasmatico romanzo orwelliano da ciclo distopico, ma sembra essere effettivamente una realtà palese in continua evoluzione, grazie alla proliferazione di dati personali, posizioni e contatti che siamo soliti lasciare ai servizi online in cambio di prestazioni elargite gratuitamente.
La mole d’informazioni che viaggia telematicamente, consente una ricostruzione postuma di movimenti, interessi, profili psicologici fedeli alla realtà, pagando il prezzo delle noiose inserzioni pubblicitarie che interrompono o sottendono la navigazione.
Quando l’informazione da vendere agli inserzionisti siamo noi stessi, tuttavia, il gioco non è poi tanto ludico e la barca inizia a perdere da tutte le parti, rischiando di farci pagare a caro prezzo la consumata indifferenza con cui cediamo le nostre persone.
Nel frattempo, Facebook subisce un drastico calo a Wall Strett, perdendo il 7% e registrando lo scivolone più dannoso dal 2012. Il titolare del colosso californiano, Mark Zuckerberg, non è ancora intervenuto sulla questione, malgrado nel 2015 avesse rimosso l’app thisisyourdigitallife accorgendosi della trasmissione indebita dei dati, senza approfondire tuttavia le ricerche. Unanimi sono le richieste delle autorità di tutto il mondo a che sia garantita un’accurata indagine che sveli i segreti di Facebook: tra i più frenetici spunta Damian Collins, il conservatore che avanza il timore di un’indebita influenza della società Cambridge Analytica nella campagna della Brexit.
L’inchiesta potrebbe rivelare risvolti tanto indesiderati, quanto inquietanti. Potremmo trovarci dinanzi al polverone più grande degli ultimi anni, e in questa tetra atmosfera il gioco di luci e ombre non consente una visione trasparente dell’insieme: il problema è che non siamo in un romanzo di Agatha Christie, i luoghi sono reali, le ombre non accennano a dissolversi e i personaggi potremmo essere noi.
Datagate: il caso Snowden, l’America dopo l’11 settembre
Non è la prima volta che gli U.S.A. sono chiamati a dare spiegazioni per il comportamento ambiguo di società o enti del proprio territorio. Il problema sicurezza è divenuto uno spauracchio significativo a partire dai tragici eventi dell’11 settembre 2011 e il timore terroristico ha giustificato una serie d’attività investigative volte a stemperare nuovi pericoli.
Non sempre però le azioni portate avanti dai servizi segreti statunitensi sono state in linea con gli intenti prefissati, rimettendo al centro dell’attenzione il problema della sicurezza dei cittadini, non sempre osteggiata da un nemico esterno. Il caso più emblematico reca il nome di Datagate, una serie di rivelazioni sulle attività di sorveglianza di massa attuate dalla N.S.A. (National Security Army) sui cittadini statunitensi e stranieri perpetratesi dal 2001 al 2011. Il caso si è aperto nel 2013 con le pubblicazioni di Edward Snowden, un ex consulente di quella che è stata definita come la più grande agenzia segreta degli Stati Uniti, in grado di acendere una luce su un’inchiesta di portata vastissima.
Le rivelazioni hanno fatto emergere un programma di spionaggio massiccio in grado di recepire i dati provenienti da Google, Apple, Facebook, Microsoft,Yahoo, Skype e altre aziende tecnologiche che si vanno ad aggiungere ai tabulati telefonici, al registro delle attività e alle conversazioni in presa diretta, catalogati mediante l’utilizzo di un software segreto denominato Boundless Informant. L’inchiesta si è proliferata a macchia d’olio, facendo emergere registrazioni, archiviazioni di dati e intercettazioni di telefonate a vari capi di governo, tra cui la Merkel, e in territorio extra statunitense, tra cui l’Italia, denotando una falla enorme in un sistema che ha risucchiato la libertà di milioni di cittadini.
Oggi la partita per la trasparenza sembra passare in secondo piano. È in gioco la partita della sicurezza dei cittadini, nessuno escluso. Non si possono prevedere gli sviluppi di un’inchiesta che potrebbe portare a galla un massiccio impianto di pilotaggio dei principali sistemi socio-politici; ciò che rimane, malgrado tutto quello che passa attraverso, è la possibilità di scoprire una verità retroattiva in grado di affogare tutti.