Lo sgombero era avvenuto il 5 luglio, quando le Forze dell'Ordine avevano comunicato ai rifugiati che l'immobile in cui alloggiavano era sotto sfratto esecutivo. Da allora, vivono accampati lungo una strada della Capitale, in tende prive di cucina e di servizi igienici, supportati per gran parte dai volontari della zona.

Le falle nel sistema d'accoglienza

I richiedenti asilo avevano occupato una struttura situata nella zona est di Roma, a seguito della chiusura del progetto d'accoglienza a cui erano stati indirizzati. Si trattava di un'occupazione abusiva, ma autogestita e indipendente.

Il giorno dello sgombero, insieme agli sfrattati, era stato intervistato anche Aboubakar Soumahoro. Il sindacalista aveva spiegato che, al fine di trovare una ricollocazione idonea, era stata inoltrata una richiesta di collaborazione al comune di Roma. Sollecitazione che, però, aveva trovato il silenzio dell'amministrazione locale e che, quindi, aveva dimostrato ancora una volta ''il fallimento di un sistema di accoglienza e inserimento dei rifugiati, spesso lasciati soli'', come sottolineato dallo stesso Soumahoro.

Una questione che rimane ancora aperta

Oggi, a due mesi dallo sfratto, la situazione non è ancora stata risolta e gli ex-occupanti continuano a vivere per strada. Come documentato da un reportage di Skytg24, il palazzo sgomberato è chiuso e sorvegliato, mentre all'esterno si può vedere l'accampamento di fortuna creato dalla schiera di tende.

Un uomo, intervistato dalla giornalista, ha raccontato che erano in molti a vivere in quella struttura e che l'autogestione è stata portata avanti per anni. ''Siamo stati sfrattati e sgomberati il 5 luglio- conferma- Se abbiamo chiesto asilo e [la richiesta] è stata accettata, sono le autorità italiane a dover sistemare il soggetto [che ne ha fatto domanda].

Per ora abbiamo un dialogo con il Comune, vedremo dove deciderà di indirizzarci''. Gli sgomberati, infatti, sono tutti regolarmente muniti di permesso di soggiorno e status di rifugiato. Tra di loro, inoltre, vi è anche un mediatore culturale, arrivato in Italia 16 anni fa e laureatosi nel nostro Paese. ''Noi non vogliamo strutture gratis, vogliamo una struttura in cui possiamo pagare acqua, luce e bollette.

Possiamo pagare e vogliamo contribuire'' spiega all'inviata. La loro proposta, dunque, è quella di poter avviare un progetto di cohousing (autogestione collettiva), che potrebbe essere finanziato anche da fondi europei. Il Comune, però, finora ha offerto solo alternative che non possono garantire ai rifugiati di vivere insieme, condizione per loro imprescindibile.