Sembra destino che un film sulla vita di Thomas Wolfe ottenga le stesse recensioni contrastanti di un autore che, acclamato in vita, è stato progressivamente ridimensionato dallo scorrere degli anni. Sta di fatto che l’opera prima di Michael Grandage – regista teatrale al suo debutto nel mondo cinematografico – mostra tutti i limiti di una regia troppo centrata sul proscenio e sui ritmi teatrali.

Tuttavia le interpretazioni di Jude Law e Colin Firth, unite a un’angolazione originale sul febbrile lavorio che c’è dietro l’attività di uno scrittore, conferiscono fascino a un film che prova a spiccare il volo senza riuscirci fino in fondo.

La trama in breve

Maxwell Perkins lavora come editor presso la Charles Scribner’s Sons, dove cura la pubblicazione delle opere di grandi della letteratura americana, come Fitzgerald e Hemingway. È nel suo ufficio che un giorno arriva, impetuoso e improvviso come un temporale estivo, il giovane Thomas Wolfe, scrittore in erba già rassegnato a vedersi rifiutare il suo manoscritto per l’ennesima volta. Con sua grande sorpresa la casa editrice accetta di pubblicarlo ed è da quel momento in poi che nasce un sodalizio di intenti che, fra alterne fortune, durerà per quasi dieci anni.

Maxwell, amorevole padre di famiglia e lavoratore integerrimo, è all’estremo opposto della genialità schizzata di Thomas e tutta la loro collaborazione sarà un costante gioco di contrasti e contrappesi, che finiscono per sfogarsi sui fin troppo numerosi fogli su cui lo scrittore appunta le sue storie elefantiache.

Fra un tratto di matita rossa e le improvvise fughe di Thomas da un continente all’altro, due best seller verranno consegnati alle stampe, finché le visioni fin troppo estreme di Wolfe non lo porteranno a recidere ogni legame alla ricerca di una nuova crescita personale.

Imperfetti biopic e interessanti tuffi nel mondo della scrittura

Genius ha tutte le imperfezioni di un’opera prima, traslata quasi pedissequamente dalla scena teatrale allo schermo cinematografico. Il ritmo lento, i dialoghi poco dinamici, un susseguirsi di scene che non scorre fluido ma va spesso per giustapposizioni, un uso statico delle inquadrature e l’incapacità di sfruttare il mezzo cinematografico fino in fondo.

Eppure ha degli attori di tutto rispetto sullo schermo – a cominciare dal duo Firth-Law coinvolto in un commovente e travagliato rapporto padre-figlio – e pur non riuscendo a fare completamente breccia nello spettatore, ha il merito di mettere sul tavolo tante carte.

L’aspetto forse più interessante – e da alcuni giudicato il più noioso – è proprio l’esaltazione del monotono, sfiancante lavorio con cui l’editor interviene a tagliare l’opera di uno scrittore, a interrompere quell’apparentemente tanto romantico ma disordinato flusso di idee buttate sul foglio senza forma, a costringere il fiume in piena delle parole in argini definiti, perché tutti i lettori possano ritrovare il bandolo della matassa e navigare fino al finale.

E il risultato non è quella tanto millantata commercializzazione di un’opera artistica ma un lavoro nuovo, che nonostante i processi macchinosi alle sue spalle, sa comunicare con ancora più efficacia la sua arte.

Nel mezzo c’è persino lo spazio per momenti emozionali e se pure si uscirà dal Cinema con addosso un senso di insoddisfazione, sarà valsa la pena fare un viaggio nel mondo della scrittura, all’ombra di una Grande Depressione che oggi suona sinistramente più attuale che mai.