"Amo ferocemente e disperatamente la vita e credo che questa ferocia e questa disperazione mi porteranno alla fine". Così era solito descriversi Pasolini, e così, in queste parole, sembrano ritrovarsi i suoi ragazzi, in quello che è diventato uno dei capolavori letterari più discussi e censurati della storia del dopoguerra. L'amore per la vita nonostante tutto; la bellezza vista attraverso gli occhi di chi "non c'ha manco un sordo pe fa cantà un ceco"; la forza di inventarsi la giornata con piccoli espedienti (non troppo legali) e l'incantevole semplicità nel riuscire a vedere un ruscello cristallino attraverso le torbide acque di un biondo Tevere.
Vita, forza e ingenuità che ritroviamo nella trasposizione teatrale di "Ragazzi di vita", costruita magistralmente dal regista Massimo Popolizio, con la drammaturgia di Emanuele Trevi e con un cast di 19 attori che hanno scombussolato il compìto palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, emozionando e sorprendendo.
"Ragazzi di vita", il racconto
Siamo nella Roma del secondo dopoguerra, e tra le borgate della città - Ponte Mammolo, Pietralata, Donna Olimpia, il Tiburtino - un gruppo di adolescenti appartenenti alla classe sociale più bassa, cerca di farsi strada tra piccoli "furtarelli" e vendite di contrabbando. In questa cornice fatta di miseria, di prostituzione, di famiglie disgregate e di scuole fatiscenti, si susseguono le avventure del Caciotta, di Amerigo, del Lenzetta, di Begalone e del Riccetto, "delinquentello" dall'animo buono, pronto a lanciarsi nel fiume per salvare una rondine all'inizio del romanzo, e che finirà per abbandonare il piccolo Genesio alla sua tragica fine nelle acque dell'Aniene.
Sarà lui a rappresentare la metafora più profonda del libro, proprio il Riccetto che, una volta tagliati i suoi riccioli, entrerà a far parte del mondo individualista del consumismo borghese.
"Ragazzi di vita" a teatro
Lo spettacolo "Ragazzi di vita", andato in scena dal 26 ottobre scorso al Teatro Argentina di Roma, chiude il sipario al viaggio pasoliniano che il teatro capitolino ha dedicato allo scrittore, a quarant'anni dalla sua morte.
L'adattamento teatrale di Emanuele Trevi riesce a far sorridere, perché riporta l'astrazione voluta da Pasolini, e rende al pubblico una parte della veracità della sua opera, attraverso un non semplice utilizzo del linguaggio romanesco che trova il suo picco nel glossario - eccellente idea registica - con uno sketch tra due donne ucraine, che cercano di chiarire alcuni termini dialettali ormai di uso comune.
Una lingua che diventa simbolica e potente, anche perché supportata dall'utilizzo - che stranisce all'inizio - della terza persona.
A guidare la ciurma di interpreti funambolici c'è un narratore che assume le belle sembianze di Lino Guanciale, volto noto più per i successi televisivi che per il suo importante percorso teatrale, che potrebbe definirsi un "drone moderno", pronto ad osservare dall'alto i personaggi, e a sostenerli entrando in scena quando necessario: è un istrione che coinvolge, dandosi generosamente alla storia e al pubblico.
Il regista Massimo Popolizio riesce a rendere l'atmosfera di allora, contando su uno spazio stilizzato con pochi elementi trainanti, e mettendo al centro soltanto il gusto della parola, riuscendo a rendere viva anche una semplice descrizione.
E poi la musica - regalo per tutti e senza prezzo - gli stornelli e le strofe di Claudio Villa che fanno da filo conduttore canoro, perché non c'è niente di più angosciosamente affascinante che cercare la felicità nel canto.