“Ho lasciato l’ombrello vicino alla porta per non dimenticarlo ma uscendo sono riuscito a scordarmelo lo stesso!” “Invece che girare a destra sono andato dritto come faccio sempre”. Alzi la mano a chi non è successo almeno una volta nella vita (per non dire dieci o anche mille) di commettere un errore o avere una dimenticanza semplicemente perché nel momento della scelta non era presente. Si chiama mind wandering (mente vagabonda) e indica l’attitudine degli esseri umani a elaborare pensieri e immagini mentali totalmente slegati dalla realtà circostante.

Le ricerche più recenti in ambito neuroscientifico hanno rivelato che questo tipo di operosità cerebrale è strettamente legata ad un network neuronale che s’innesca quando il cervello è a riposo, per poi ridurre significativamente il proprio raggio d’azione durante le attività che richiedono concentrazione e attenzione

Mind wandering causa dell’infelicità?

Secondo uno studio condotto da due ricercatori dell’università di Harvard, Matthew Killingsworth e Daniel Gilbert, e pubblicato nel 2010 sulla rivista “Science”, le persone spendono ben il 46,9% della loro vita da sveglie pensando a qualcosa che non ha nulla a che vedere con ciò che stanno facendo e con la realtà che le circonda. Già da sé il dato lascerebbe esterrefatti ma quel che è peggio è che quest’enormità di tempo riservata al "nonpresente" sembrerebbe una delle principali cause dell’infelicità.

Nulla di nuovo: sono molte le tradizioni filosofiche e religiose per le quali il benessere si radica nella capacità di restare con l’attenzione al reale. “Focalizzarsi con la mente su qualcosa che non sta accadendo ha un alto costo emozionale: al di là del contenuto stretto dei pensieri, quanto più frequentemente questo fenomeno avviene tanto più è facile realizzare una previsione sull’infelicità del soggetto”: queste le conclusioni dello studio.

Non tutto è negativo

Ovviamente sarebbe alquanto anomalo da un punto di vista evolutivo che un’attitudine innata risultasse vana e pure dannosa. Secondo altre ricerche compiute presso l’Università di Santa Barbara in California dallo psicologo Jonathan Schooler e dal suo team, pubblicate nel 2011, il mind wandering avrebbe diverse finalità positive, tra cui:

  • consentire la pianificazione del futuro e delle scelte da compiere
  • favorire la creatività, ponendo le basi, tramite una sorta di periodo d’incubazione, alla comparsa dell’intuizione
  • effettuare un reset della mente quando l’apprendimento occupa lunghi periodi di tempo, abbassando temporaneamente il livello di attenzione per poi riportarlo alle condizioni iniziali
  • sviluppare la capacità dinamica di valutare contemporaneamente obiettivi diversi e anche in contrasto tra loro

Il contrario del mind wandering: la mind fullness

Con l’espressione mind fullness s’intende invece l’immergersi totale nel momento presente, restando con la mente e la sfera sensoriale ancorate alla realtà circostante, senza volontà di giudizio e con piena accettazione.

È evidente che le due modalità sono entrambe proprie della vita cerebrale, come una sorta di ritmo vitale, in un continuo rimbalzo tra mondo esterno ed elaborazione interiore. Ormai le neuroscienze non hanno più dubbi: la consapevolezza dell’operato della mente, la capacità di passare intenzionalmente da attenzione ad evasione e il tempo dedicato a ciascuna modalità condizionano in modo decisivo non solo il realizzarsi del potenziale umano, ma soprattutto l’approccio alla vita e la possibilità di trascorrerla o meno con gioia e gratitudine.