Per la serie BlastingTalks intervistiamo Giovanni Abelli, co-fondatore di Innovazione Circolare. La società è un acceleratore del processo di trasformazione verso modelli di business sostenibili e digitali che fornisce servizi di consulenza per startup e PMI.
Blasting Talks è una serie di interviste esclusive con business e opinion leader nazionali e internazionali per capire come la pandemia di coronavirus abbia accelerato il processo di digitalizzazione e come le aziende stiano rispondendo a questi cambiamenti epocali. Leggi le altre interviste della serie sul canale BlastingTalks Italia.
Com’è nata innovazione circolare e quale missione si pone?
La missione di innovazione circolare consiste nel sostenere, agevolare e accelerare l’evoluzione che ogni impresa deve percorrere seguendo le due direttrici che guidano la trasformazione. Quella verso la sostenibilità in senso lato, non solo ambientale ma anche sociale e di governance. L’altra direttrice è quella della trasformazione digitale, dell’innovazione dedicata alla forza e all’impatto dirompente che la tecnologia ha sul business e sulle interazioni sociali. Per spiegarmi meglio, riprendendo i quadranti di Gartner, se immaginiamo di vedere posizionato un oggetto/impresa rispetto alle due nostre direttrici, sostenibilità da un lato e innovazione digitale dall’altro, ci immaginiamo un percorso virtuoso verso il quadrante a nord est, molto digitalizzato e molto sostenibile.
Quindi innovazione circolare si pone la missione di affiancare le imprese e nello specifico le pmi nell’intraprendere questo percorso.
Quali strumenti utilizzate per sostenere le aziende e in cosa consistono le vostre consulenze?
A livello pratico la nostra offerta si basa soprattutto sul risultato del progetto di ricerca che stiamo portando avanti con il dipartimento di economia dell’università di udine e azzeroco2, la società partecipata da kyoto club e legambiente, leader nel settore di progetti sostenibili e ambientali.
Questo progetto di ricerca ha l’obiettivo di andare a mettere a disposizione delle imprese, e nello specifico delle pmi, un sistema che sia in grado di offrire in maniera più semplice possibile una misurazione del loro livello di sostenibilità e innovazione. Alla base quindi del progetto c’è un modello matematico e statistico che seleziona tra i tanti sistemi di misurazione per lo più internazionali degli indicatori e poi elabora il risultato cercando quelli che possono semplificare ma rappresentare il livello di sostenibilità (esg), ma anche il livello d'innovazione e digitalizzazione di un’impresa (i).
Può entrare nel merito del progetto di ricerca e del suo funzionamento?
Il progetto di ricerca sarà il cuore della piattaforma digitale che verrà messa a disposizione delle imprese per poter misurare il loro posizionamento rispetto alla sostenibilità e all’innovazione. Una volta effettuata la misurazione, lo strumento permetterà di di rappresentare digitalmente questa misurazione, registrarla e valorizzarla attraverso gli strumenti delle tecnologie della blockchain. Al termine di questo processo l’azienda potrà valorizzare il suo livello Esgi attraverso lo scambio su un vero e proprio mercato decentralizzato. Potrà inoltre accedere ai contenuti erogati sempre dalla stessa piattaforma, acquisendo il know how utile per migliorare la misurazione successiva.
Attraverso questo percorso l’impresa inizierà così una sorta di circolo virtuoso in cui l’oggetto non solo si misurerà ma sarà anche in grado di monitorare il suo percorso di miglioramento, rilevando i risultati delle azioni intraprese verso un modello più sostenibile e digitale.
Tutto ciò con quale obiettivo?
L’obiettivo è di uscire allo schema tradizionale d’innovazione oggi accessibile solo alle multinazionali. Da questo punto di vista vogliamo mettere a disposizione uno strumento che responsabilizzi enormemente le pmi e che sia di facile utilizzo, con una soglia di accesso economico molto più bassa e con indicatori di monitoraggio. Il cuore della nostra attività in termini di consulenza e strumenti è appunto questa piattaforma.
Garantendo servizi di assistenza alle imprese che vogliono utilizzarlo. In parallelo partecipiamo come acceleratore in alcune di queste realtà, acquisendo delle quote e mettendo a disposizione risorse economico finanziarie o strumenti per farle crescere velocemente.
Ci può riassumere brevemente qual è lo stato del mercato delle start up in Italia?
Lo stato delle start up in italia è “bipolare”. Tante sono le iniziative, alcune molto interessanti, nate negli ultimi anni. Resta il fatto che non sono stati ancora risolti i problemi sistemici che ostacolano l’innovazione. Evidenzio infatti che nel contesto italiano le start up hanno ancora il grosso problema di accesso a strumenti agili che permettono di risolvere i problemi dell’avviamento.
Non sono quelli di accesso alla finanza, sempre complicato, alla finanza ma complessivamente a procedure che richiedono tempi e modalità incompatibili con la velocità che una start up deve avere. Questo è un problema importante perché tutti gli strumenti che oggi sono messi a disposizione sono tendenzialmente appesantiti da passaggi burocratici e lunghe tempistiche di adozione. Gli strumenti ci sono, ma il limite è quello che sono stati pensati con logiche tradizionali. Basti pensare alla complessità di accedere alla garanzia del medio credito centrale per ottenere un finanziamento. Ci sono documenti e documenti da presentare, oltre a tempistiche molto lunghe per poter essere intermediati dalla banca.
E c’è la mancanza di alcuni soggetti tipici di questo mercato, come i venture capitalist.
Qual è il vostro orientamento legato all’innovazione per quanto concerne il mondo delle pmi?
L’innovazione non può essere regolata a monte. O sposi l’innovazione, quindi accetti gli impatti che l’innovazione comporta e vai a regolamentarla dopo che è stata generata, oppure non la sposi. Cercare di regolarla prima che si inneschi, di fatto crea un sistema che la ostacola. Si tratta di una contraddizione in termini. Ed è il motivo per cui spesso realtà bellissime partite in italia, sono dovute andare all’estero per svilupparsi. In posti e paesi dove il tema della regolamentazione non era ostativo. L’innovazione è per definizione qualcosa che non esiste e il cui impatto si può valutare solamente a posteriori.
In italia si parla molto d'innovazione e sostenibilità, ma spesso il paese arranca nelle classifiche internazionali legate a questi parametri: secondo voi per quale motivo?
Il motivo è proprio il fatto che tutti gli strumenti che permettono di beneficiare di percorsi di sostenibilità e d'innovazione hanno delle soglie di accesso e adozione non compatibili con il tessuto imprenditoriale italiano. Che, ricordo, è fatto prevalentemente da pmi. Non è un caso che i bilanci sociali, i codici etici e gli strumenti di governance siano sostanzialmente fatti da importanti gruppi internazionali. Parimenti gli stessi percorsi d'investimento che devono essere sostenuti anche per introdurre la digitalizzazione e l’innovazione richiedono uno sforzo e un cambiamento tale per essere implementati che di fatto diventa difficile da sostenere, se non con grossi investimenti, disponibilità di risorse, tempo e skills.
Questo rappresenta una soglia di accesso che si trasforma in una barriera al tessuto imprenditoriale medio italiano. Dall’altra parte i modelli prevedono interazioni con logiche un po’ vecchie di forte intermediazione e certificazione attraverso soggetti esterni che fanno verifiche, consulenti esterni che fanno tutta una serie di attività che impegnano la realtà, etc… quindi generalmente solo un’azienda strutturata come una grande impresa può permettersi di sostenere questo onere. Per contro una piccola realtà che deve giornalmente confortarsi con il mercato e con limitate risorse interne si trova tagliata fuori.
Qual è stato l’impatto della pandemia da coronavirus sul settore?
Drammatico l’impatto in generale, perché la pmi media si è trovata di fronte a scenari apocalittici.
È vero però che il fenomeno ha aumentato enormemente e in maniera non immaginabile la sensibilità rispetto ai temi del digitale e della sostenibilità. Resta un punto interrogativo . Quanto questa sensibilità resterà presente nel lungo periodo “modificando” virtuosamente il nostro dna? È l’unica opportunità da cogliere dietro ogni crisi sistemica. Se dimentichiamo quello che la crisi ci ha obbligato ad imparare, resta solo il costo.
Dal vostro peculiare punto di osservazione, quali saranno i modelli di successo nel futuro in relazione ai business sostenibili e digitali?
Abbiamo un’idea piuttosto chiara. Da un lato enfatizziamo la centralità dell’uomo all’interno del concetto di economia circolare, è la principale risorsa e continuerà ad essere al centro dei modelli di business, anche quelli nuovi.
Dall’altra parte crediamo sempre di più che la digitalizzazione spingerà verso modelli che siano disintermediati e decentralizzati, nel senso che vedremo sparire ruoli e funzioni a basso valore aggiunto e soggetti che decideranno per noi. Grazie alla tecnologia saremo sempre più autonomi e responsabilizzati nelle decisioni.
Quindi crediamo nello sviluppo di modelli peer to peer, dove sostanzialmente non c’è un soggetto che governa centralmente le relazioni con il potere di decidere il bene o il male di ciò che dev’essere fatto. Le regole del gioco saranno implementate nella tecnologia e sarà la tecnologia che le metterà a disposizione di fruitori del bene/servizio e ne sarà garante. Basti pensare all’impatto che la blockchain ha avuto consentendo di avere dei registri pubblici non modificabili e al fatto che attorno a questa tecnologia le metodiche delle analisi crittografiche abbiano permesso di costruire delle rappresentazioni di valore (criptovalute) trasferibili da un proprietario ad un altro.
E siamo solo all’inizio di una nuova ondata e di una nuova era di evoluzione dove la blockchain e l’intelligenza artificiale hanno e avranno lo stesso impatto che ha avuto internet nel business e nelle organizzazioni sociali.
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