L’avvocato, per la sua attività giudiziale o extragiudiziale deve sempre richiedere un compenso professionale, parametrato sulla base delle attività effettivamente svolte durante tutto il giudizio. Alla liquidazione del suo compenso provvede poi il giudice che è tenuto ad effettuare una prudente valutazione delle singole voci degli onorari e delle spese sostenute. Il magistrato deve quindi prendere a riferimento anche i minimi e i massimi della tabella allegata alla tariffa stessa. La Corte di Cassazione con sentenza n.1202/2016 ha esaminato proprio il caso di una professionista legale che decide di proporre ricorso per decreto ingiuntivo per recuperare il compenso che lei riteneva che le spettava.
Il Tribunale le dà ragione, accordandole la somma di denaro che aveva chiesto al suo cliente, poi deceduto, per l’attività professionale svolta. Viene dunque rigettata l’opposizione che avevano presentato gli eredi del defunto, che non avevano alcuna intenzione di corrispondere tale compenso al legale, proprio perché secondo loro c’era stato un errore sul valore della pratica. In Corte d’appello il verdetto del Tribunale viene però ribaltato. Infatti i giudici dell’appello hanno ritenuto che, poiché non erano stati calcolati correttamente né le spese, né gli onorari, doveva essere drasticamente tagliato il compenso richiesto dal legale.
Cassazione si pronuncia sull’attività professionale dell’avvocato
L’avvocato non si è rassegnato a quel compenso piuttosto magro e ha proposto ricorso per Cassazione. La Suprema Corte però conferma la decisone dei giudici dell’Appello, rigettando il suo ricorso. Gli Ermellini hanno tracciato in modo molto scrupoloso le ragioni dell’impossibilità di accordare un compenso maggiore al legale, la quale aveva deciso di assistere il cliente prima di aver conseguito la qualifica di avvocato.
Da ciò ne conseguiva che quest’ultima, in qualità di procuratore legale aveva diritto solo al 50% degli onorari normalmente spettanti per quella stessa attività ad un avvocato vero e proprio. Gli Ermellini hanno anche ritenuto che la ricorrente era effettivamente incorsa in un errore di calcolo nel suo compenso. Infatti avrebbe dovuto aver riguardo al valore non dell'intero compendio, ma al valore della quota oggetto di divisione, anche perché la stessa non aveva comunque concluso l'opera professionale.
Condizioni per il raddoppio degli onorari
Proprio sul valore della causa gli Ermelini hanno sottolineato che in materia di giudizi divisori, come quello del caso di specie, non si può far riferimento all’art 12 del codice di procedura civile. Bisogna invece applicare la deroga contenuta nell’art. 6 del D.M. n.127/04, che prevede espressamente che in materia di tali giudizi, il valore della causa vada determinato in relazione al valore della quota o dei supplementi in contestazione. Ne consegue che i giudici dell’appello correttamente hanno applicato per analogia la disciplina in materia di cause ereditarie di divisione all’attività stragiudiziale prestata dall’avvocato. I giudici di legittimità hanno quindi concluso soffermandosi sulle ipotesi in cui legittimamente gli onorari dell’avvocato possono essere addirittura quadruplicati.
Deve trattarsi sia di una pratica legale oggettivamente complessa, dovendo altresi sussistere degli specifici elementi che giustifichino tale pretesa. Sarà in ogni caso il giudice di merito a decidere se ricorrono tali presupposti, ammettendo quindi il raddoppio dei massimi degli onorari, previa espressa motivazione.