Sicuramente tra gli argomenti più dibattuti nelle ultime settimane c’è quello delle Pensioni e della riforma previdenziale inserita nella Legge di Bilancio attualmente in discussione al Parlamento. A dire il vero, parlare di riforma è un esercizio molto difficile, perché non siamo di fronte ad una controriforma della Legge Fornero che cambiò totalmente, ed a discapito dei lavoratori, la previdenza italiana. Nella Legge di Bilancio ci sono una serie di misure che cercano di dare ossigeno a soggetti che a causa della Legge Fornero hanno visto allontanarsi in avanti nel tempo il giorno della quiescenza.

Il pacchetto previdenziale così come è stato chiamato, inserisce nel sistema pensionistico, due vie di uscita flessibile, la pensione in prestito dalle banche, cioè l’APE e Quota 41 per qualche precoce. Nessuno di questi interventi è esente da critiche perché nessuna di queste misure è globale, cioè copre tutte le persone categoria per categoria. Solo interventi tampone e minimi, più vicini ad essere considerati assistenziali che previdenziali.

Sono solo degli ammortizzatori sociali

Una persona ha il diritto a lavorare, ad avere uno stipendio giusto e di avere un reddito tale da svolgere una vita dignitosa. Sono tutti punti che vengono fuori dalla nostra Carta Costituzionale, cioè diritti e non sogni.

La normativa italiana ha strumenti che consentono, bene o male, alle persone di salvaguardare questi diritti fondamentali che sono uno incatenato all’altro. Se uno perde il lavoro ci sono i cosiddetti ammortizzatori sociali, cioè quelle forme di sostentamento reddituale che copre la mancanza di stipendio, determinata dalla perdita del lavoro, per un periodo definito.

Per chi ha problemi extra, come il reddito basso, l’assenza del lavoro, le famiglie numerose o le invalidità, la Legge prevede numerosi sussidi per i meno abbienti o indigenti che dir si voglia. Alcune novità sulle pensioni assomigliano molto a misure simili a quelle prima citate. Basti pensare all’APE social che concede la pensione in prestito da una banca ma che sarà restituita dallo Stato.

C’è da scommettere che questa sarà la versione più utilizzata di APE, perché molti soggetti a cui sarà consentito di lasciare il lavoro a 63 anni, dovranno fare i conti con la rata di prestito da restituire al termine dell’anticipo. La versione gratis di APE sarà appannaggio di soggetti disabili, con disabili a carico o disoccupati che da almeno 3 mesi hanno finito di percepire le indennità per i senza lavoro. Inoltre coloro che svolgono mansioni particolarmente pesanti, cioè 11 nuove categorie che vanno dalle maestre di asilo agli edili.

Precoci 41 anni di lavoro non bastano

Anche quota 41 così come è stata messa in piedi dal Governo, appare simile ad un intervento assistenziale rivolto però a chi ha 41 anni di contributi versati.

Potevano tranquillamente chiamarla quota 41 sociale perché serve aver raggiunto i 41 anni di contributi, dei quali, almeno un anno versato prima dei 19 anni e poi, essere indigente alla stregua dei beneficiari dell’Ape social prima descritta. Niente a che vedere con quello che chiedono i lavoratori dei comitati e dei gruppi. Per loro 41 anni di lavoro possono bastare, ma evidentemente per il Governo no. Questione di coperture, almeno questa la scusa con cui hanno glissato sulla questione, prima Poletti e poi Nannicini. Per lasciare il lavoro, i precoci, che hanno iniziato anche prima dei 18 anni a lavorare, ma che non sono meritevoli di tutela assistenziale, dovranno trovare strade diverse per raggiungere il meritato riposo, cioè la pensione.

Un soggetto nato nel 1960, per andare in pensione nel 2017 dovrà aver iniziato a lavorare continuativamente a partire dai 14 anni. Lo stesso soggetto, se ha iniziato a lavorare intorno ai 24 anni (e non sarebbero precoci), dovrà aspettare il 2027, sia come età per la pensione di vecchiaia che per quella di anzianità. In definitiva niente viene sistemato per quei lavoratori e sono molti che chiedono la meritata pensione.