È il caso di una commessa di una nota catena di profumerie: la donna è stata licenziata per giusta causa inseguito ai ripetuti richiami da parte del direttore del negozio per l’uso di un linguaggio scurrile e pieno di parolacce durante la pausa pranzo con le colleghe di lavoro. Sebbene fosse già stata ripresa più volte, il direttore del negozio ha dovuto ricorrere alla estrema sanzione, il licenziamento.

Inizia così l’iter processuale della donna che presenta il ricorso per la sentenza dei giudici in Corte d’Appello del 12/06/2014, secondo la quale sussistevano le ragioni di legittimità del licenziamento intimato alla predetta il 5/12/2008.

Nonostante i legali della donna affermassero l’impossibilità di pretendere che alla lavoratrice, nei momenti di pausa lavorativa, venisse impedito di adottare un linguaggio normalmente utilizzato da persone della stessa estrazione sociale, cultura e accomunate da famigliarità in seguito al lavoro quotidiano in uno spazio ristretto, il ricorso in cassazione è stato ritenuto inammissibile. La richiesta di reintegro era sostenuta dagli avvocati della donna secondo i quali nella condotta della stessa si deve escludere la presenza di una scarsa inclinazione agli obblighi assunti da lavoratrice.

L’iter processuale si conclude con la sentenza civile n. 3380/2017 del 08/02/2017 che conferma il licenziamento per la ormai ex dipendente della profumeria ritenendo la sentenza d’appello priva di vizio motivazionale con riferimento al comportamento tenuto dalla dipendente e confermando la legittimità del licenziamento.

La sentenza ricorda che il giudizio ultimo in Cassazione è un giudizio con critica vincolata e la Corte di Cassazione non giudica il fatto in senso sostanziale bensì esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione e quindi non le consente di effettuare un riesame ed una rivalutazione autonoma sul merito della causa.

A nulla è valso tale ricorso presentato alla Corte Suprema dalla commessa, che ha visto quindi confermare il proprio licenziamento oltre che la condanna al pagamento di circa 3000 euro di spese processuali.