Passato il clamore del varo del decreto Dignità, possiamo e dobbiamo chiarirci il senso e la direzione di tale provvedimento, che, a mente fredda, evidenzia subito essere un atto legislativo poco connesso con la realtà del Paese. In particolare tra le critiche in primo ci sono quelle che mettono in evidenza i motivi del massiccio ricorso al tempo determinato, motivi secondo i critici ignorati da Di Maio. Sul fronte lavoro l'Istat certifica in questi giorni ciò che già sapevamo da tempo: che le aziende continuano a preferire i contratti a termine rispetto al contratto a tutele crescenti a tempo indeterminato, altrimenti noto come Jobs Act.

Ciò per un motivo semplicissimo: i primi costano complessivamente di meno rispetto ai secondi.

Cosa ha fatto Di Maio per il lavoro

Di Maio ha prodotto un decreto che non cambia questo dato di fatto, perché invece di alleggerire i costi legati al tempo indeterminato li ha accresciuti, imponendo un aumento della penale a carico delle aziende in caso di licenziamento del 50% e portando l'indennità dal minimo di 4 mesi a 6 e il massimo da 24 mesi a 36. Per quanto riguarda il tempo determinato, il ministro tenta una stretta prevedendo che i contratti sino a 12 mesi restino acasuali contro i precedenti 36 mesi concessi in precedenza, con la possibilità di rinnovo fino a 24 mesi, che deve essere giustificato da picchi produttivi non legati all'ordinaria attività dell'azienda.

Conseguenze logiche e prevedibili per un futuro ad alta precarietà

Pare dunque abbastanza ovvio prevedere che le aziende per sfuggire ai costi maggiorati del contratto a tutele crescenti, si serviranno ancora di più dei contratti a termine, con la differenza, rispetto a prima, di attivare contratti che non superino i 12 mesi, col risultato di aumentare il ricambio sui posti di lavoro (altrimenti detto turn over) e dunque la precarietà.

Si rischia cioè un effetto esattamente opposto rispetto agli intenti del ministro, dove, specie per i settori a basso valore aggiunto, il ricorso al lavoro nero potrebbe presto tornare ad essere una soluzione praticata in modo più o meno diffuso. Tutto pur di ridurre gli effetti di un cuneo fiscale tra i più alti del mondo, il vero problema delle aziende italiane che Di Maio non coglie con questo decreto e che dovrebbe in parte essere affrontato con la ormai attesissima quanto incerta Flat tax.

Non a caso gli alleati leghisti non hanno molto gradito il provvedimento, ben consapevoli che esso va a toccare e ledere gli interessi del loro elettorato di riferimento, quella piccola e media impresa che ora si vede precluso uno strumento che negli ultimi anni ha garantito loro la possibilità di tenere il costo del lavoro ad un livello tollerabile in chiave di competitività sui mercati.

La Pubblica Amministrazione lasciata fuori dal provvedimento

A margine del provvedimento vale la pena notare come la Pubblica Amministrazione, ovvero il maggiore datore di lavoro con contratti a termine, sia stata lasciata fuori dal decreto e questo, come capita spesso in questo Paese, ci consegna la visione di uno Stato che impone delle leggi dalle quali esso si tiene fuori.

Il decreto Dignità è stato annunciato molto pomposamente ma ancor di più sta venendo criticato, non resta che vederne i risultati nei prossimi mesi.