C'è qualcosa di enormemente, smisuratamente orribile nella morte di un bambino per mano di un adulto consapevole, ancora di più se questo adulto, come nel caso del suicidio-infanticidio di Pescara, è anche genitore della vittima.

E' qualcosa a cui la mente umana non sa dare un nome adeguato, qualcosa che sfugge a qualsiasi classificazione, qualcosa che la ragione è tentata di rifiutare, di negare addirittura, perché si sottrae a ogni tentativo di ridimensionamento e di spiegazione razionale e quando affiora alla piena consapevolezza l'impatto emotivo che ne deriva può essere devastante, destabilizzante.

Un po' come quelle persone che vivevano nei pressi dei campi di sterminio durante il secondo conflitto mondiale e fingevano, prima di tutto con sé stesse, di ignorare le atrocità che si consumavano a poche centinaia di metri dalle loro case, anche noi, se solo potessimo, sceglieremmo di non sapere, di non vedere, rifugiandoci nella vischiosa tranquillità del nostro quotidiano che ottunde i rumori (e le richieste di aiuto) che arrivano dal mondo di fuori per non essere obbligati a portare il peso del rimorso di non aver fatto nulla per impedire il consumarsi di tragedie che spesso sono tragedie annunciate.

Anche se viviamo e centinaia o migliaia di chilometri da Pescara e non conosciamo né avremmo mai conosciuto in vita nostra Gianfranco Di Zio e Neyda, la sua sfortunata bambina di cinque anni che ha voluto, pervicacemente, portare con sé in un abbraccio di morte, una morte orribile col fuoco.

Alzi la mano chi tra di noi non conosce, anche solo per sentito dire, situazioni di sofferenza profonda, che troppo spesso coinvolgono minori, che possono sfociare, prima o poi, in gesti estremi e irreparabili.

Eppure ci conviviamo, quasi sempre, fingendo noncuranza e sperando che ci pensi qualcun altro. Poi, quando accade, ne rimaniamo colpiti ed è un dolore sordo perché quello che preferiamo chiamare coi nomi di rammarico, costernazione, sconforto, non è che rimorso per la nostra colpevole impotenza. Dopo Auschwitz, nessuno può più dirsi innocente della morte di un innocente.